Ma che cosa resta di Ayrton?
In questi vent'anni, mi sono spesso chiesto e spesso mi hanno chiesto che cosa sia rimasto di Ayrton.
E' una domanda che ha il pregio di mettermi in difficoltà.
Mi spiego.
Io credo che la Formula Uno, un po' come tutte le cose della vita, abbia subito una tremenda evoluzione, attraverso due decenni.
Alcuni preferiscono parlare di involuzione, ma non sono così appagato dall'implicito giudizio negativo (insito nel concetto di involuzione).
Mi spiego ancora.
Guidare una monoposto oggi non ha nulla a che fare con l'esercizio, in teoria identico, richiesto ai drivers degli anni Ottanta e Novanta.
Il mutamento è stato genetico.
Non sto dicendo, ci mancherebbe, che uno come come Senna (ma anche uno come Prost o come Mansell o come Piquet padre o come Alboreto) non si adatterebbe alle esigenze ipermoderne.
Sto dicendo che il cambiamento, epocale, ha radicalmente trasformato il mestiere.
Se in meglio o in peggio, è materia opinabile.
Per questo ho amato così tanto Schumi.
Proprio perchè Michael, figura di passaggio a cavallo di generazioni distinte e distanti, è rimasto sempre competitivo. Lo è stato, a suo modo, persino nell'infelice triennio Mercedes.
Così, tornando a bomba, io rispondo 'nessuno' quando mi pregano di indicare l'erede di Ayrton.
Non perchè, ripeto, i VettelAlonsoRaikkonenHamilton eccetera non siano all'altezza della situazione.
Semplicemente, fanno un'altra cosa.
Dal mio punto di vista, venti anni dopo rimane invece identica la benzina che alimenta il cuore dei piloti.
E' ìl carburante che si chiama passione.
Possiamo giudicarli come meglio vogliamo, i campioni e i gregari della Formula Uno post moderna.
Eppure, non c'è uno tra loro che non sia animato dal sacro fuoco che accendeva Ayrton, Alain, Nigel.
La bellezza estrema e fottuta dell'automobilismo sta tutta qui.
Nell'impeto interiore che spinge Fernando, Lewis, Kimi, Seb eccetera ad andare comunque alla ricerca del limite. E non è colpa loro se oggi via radio vengono invitati ad alzare il piede, a rallentare per salvare le gomme e bla bla bla.
L'anima del pilota si conserva intatta, a dispetto delle regole folli e della tecnologia che si lancia su binari talvolta incomprensibili.
Io ho voluto molto bene a Senna e immagino che chi ha la sventura di leggere le mie righe lo abbia compreso.
Non era un santo e non mi piace che sia stato, dopo la disgrazia, trasformato in santino.
So che aveva una idea della vita non troppo distante dalla mia.
E so che quando ci rivedremo, perchè ci rivedremo, mi dirà che è valsa la pena continuare a scrivere di macchine e di piloti. Anche dopo di lui.
Anche senza di lui.