Profondo Rosso

A Detroit la verità sullo shock Ferrari

Qui a Detroit, lo shock Ferrari te lo raccontano così.

Fine anni Novanta.

Gianni Agnelli stipula quello che ritiene il suo capolavoro: cede il 20% di Fiat Auto alla General Motors, la quale si impegna ad acquisire l'intero controllo della azienda italiana a una data scadenza.

Ma l'Avvocato si premura di escludere la Ferrari dai termini dell'accordo: il 90% del Cavallino è controllato direttamente dalla finanziaria di famiglia degli Agnelli, non da Fiat Auto in quanto tale.

Poi la General Motors cambierà idea e pur di non comprare la scassata Fiat paga a Marchionne, nel frattempo sbarcato a Torino, una cospicua somma.

Passano gli anni. Quasi una generazione.

Matura l'integrazione tra la Fiat e la Chrysler.

A questo punto Montezemolo, che è il leader della Ferrari dalla fine del 1991, fa presente che sarebbe il caso di continuare ad escludere la Rossa dalla operazione di fusione.

Come mai?

Semplice.

Se un domani gli eredi Agnelli decidessero di liberarsi di FCA, cedendone il pacchetto di maggioranza relativa magari ad un altro costruttore (la Toyota, la Bmw, chi volete voi), anche la Ferrari finirebbe nelle mani dell'acquirente.

E addio mito della italianità.

Lì si è consumata la frattura tra Torino e LCDM. Il quale LCDM, beninteso, non ha mica lavorato gratis, per anni e anni è stato il manager più pagato d'Italia e forse lo è ancora.

Ma la sua visione strategica non coincide più con quella della Famiglia, che nel frattempo è ovviamente molto cambiata. LCDM era il pupillo di Gianni Agnelli, aveva un buon rapporto con Umberto Agnelli ed era nel cuore di Susanna Agnelli, la quale lo volle al vertice della disastrata Fiat nel cupo 2004, dopo la morte di entrambi i fratelli.

Oggi la Dinastia ha altre facce e a un Montezemolo sempre più lontano dalle logiche di Marchionne sono progressivamente venute meno le certezze.

I risultati strepitosi della azienda erano (e in parte sono ancora) la sua polizza sulla vita: ma ecco che le delusioni in F1 aprono una breccia, nell'interesse di chi si libererebbe volentieri della sua ingombrante presenza.

Così si spiega l'incredibile uscita di Marchionne sulla 'Ferrari che deve vincere': cioè, ferma un attimo, le cose non stanno esattamente così.

Tutti vogliamo che la Rossa vinca i Gp e il mondiale, una gara tipo Monza 2014 non fa piacere a nessuno.

Ma la Ferrari ha un altro obbligo: PARTECIPARE. Sempre. Senza vincolare la sua permanenza in pista ai risultati. Piero Ferrari l'ha capito benissimo, il rischio: e infatti domenica ha detto di sperare che a nessuno venga in mente una Ferrari lontana dalle gare.

Semplifico. Nello schema Marchionne, sottinteso ma intuibilissimo, ci si può anche ritirare, in assenza di successi. E non l'hanno fatto, per stare a epoca recente, colossi come Toyota, Honda e Bmw?

O il Reparto Corse giustifica gli investimenti con i trionfi o potrebbe calare la tela.

Una scusa qualsiasi la si trova sempre: i regolamenti, il calo dell'audience e bla bla bla.

Ma Montezemolo era il ds di Enzo Ferrari e non acceiterebbe mai uno sbocco del genere. Forse anche perchè sa quanto è stato bello tornare in paradiso, nel 2000, dopo ventuno anni di sofferenze.

Quindi, lo scontro è, al tempo stesso, finanziario e sentimentale, culturale e romantico.

Può darsi benissimo abbia ragione Marchionne e buona notte al secchio.

Però, dicono anche qui a Detroit, ci sta che chi ha una certa storia alle spalle la possa pensare diversamente.

Infine, aspettando dall'Italia sviluppi sui tempi della separazione e sui soldi della liquidazione montezemolesca, persino a Detroit ti fanno notare una cosuccia.

Sono anni che Diego Della Valle, ottimo amico di Luca e suo socio in affari più o meno felici, spara a palle incatenate contro gli Elkann e contro lo stesso Marchionne.

Alla fine qualcuno ha fatto due più due.

E noi che ci scannavamo su Alonso e Raikkonen...

 

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