Profondo Rosso

Agnelli,Arrivabene,Binotto: la strage dei presunti innocenti

“E per chiudere il discorso vorrei dirti amore mio…” (cit.)
Dopo la strage del presunti innocenti tra Torino e Maranello (Agnelli, Arrivabene, Binotto che è già in odor di Audi) ho condensato il mio insignificante pensiero nell’editoriale apparso oggi su Carlino, Nazione e Giorno.
Aspettando le scelte di Grasparossa Vigna, buona lettura a chi ne ha voglia.
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C’è qualcosa di vagamente deprimente, nelle convulsioni da dimissioni in salsa juventina e in salsa ferrarista. La contemporanea crisi di identità dei due gioielli dello sport nazionalpopolare, ecco, ha il sapore e il senso di un disagio che nulla e nessuno risparmia.
Se a Torino l’altero Andrea Agnelli ha fatto la fine di Icaro, che precipitò al suolo per avere osato avvicinarsi troppo al sole, un sole chiamato CR7, a Maranello siamo in presenza di un fenomeno ben diverso.
Mattia Binotto non ha dato le dimissioni per ragioni legate ai bilanci. Ha invece gettato la spugna perché, come avevo anticipato alcune settimane fa, si è reso conto di non godere della fiducia della proprietà. La stessa, appunto, della Vecchia Signora del pallone. Tu chiamale, se vuoi, coincidenze.
Voglio essere schietto, sull’ argomento. Binotto paga anche colpe che sono sue. Si è esposto troppo a livello mediatico. Talvolta ha ceduto al delirio di onnipotenza in stile Jean Todt: ma il suo maestro francese poteva permettersi certe cose, avendo vinto tutto con Schumi e Montezemolo. Binotto no. E inoltre, per stare alle cose di pista, la catena di errori al muretto è stata imbarazzante, senza che si cogliesse l’indizio di una inversione di tendenza. Infine, non aver sanato i difetti di affidabilità del motore e’ stata una sconfitta anche psicologica, dopo quell’avvio stagionale strepitoso.
Tutto questo è vero. Ma è anche vero che Binotto è stato lasciato solo. John Elkann, il presidente, non ha un grammo del carisma di Montezemolo o Marchionne. Probabilmente il nipote dell’Avvocato non “vede” nella Ferrari che corre quel sentimento popolare che invece è il Dna della azienda. È un peccato, ma è anche un autogol. Le corse non si vincono con la politica, ma il numero uno del Cavallino avrebbe potuto e dovuto fare sentire la sua voce su temi come le furbate Red Bull sul budget cap o le norme corrette al volo dalla Fia per aiutare Mercedes. O anche per mantenere le smanie di Leclerc.
Carletto, già. Ormai è passata la narrazione secondo la quale è stato il pilota monegasco a spingere per il ribaltone. Magari non è vero o almeno non del tutto, eppure la frittata è fatta. Da qui in avanti, Leclerc sarà caricato di una responsabilità enorme. È bravissimo, forse ce la farà, ma in carriera ha vinto 5Gp, non 5 mondiali. Non capire questo significa comprendere zero di Formula Uno. E della vita.
La morale è questa. Solo a gennaio conosceremo il nome del successore di Binotto. Successore che dovrà gestire una monoposto già preparata dallo staff del predecessore, che nei fatti era anche il direttore tecnico della Scuderia.
Ha senso? Temo di no. Fra tante disillusioni, nel 2022 la Ferrari ha vinto 4 gare, ottenuto dodici pole position e chiuso al secondo posto in entrambe le classifiche iridate.
Migliorare significa una cosa sola: conquistare i due titoli mondiali.
Come?

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