Hamilton e il pensionato (senza accento)
“Di regola non amo i memoriali moderni. Sono generalmente scritti da gente che o ha perso la memoria, o non ha mai fatto nulla che valga la pena di ricordare” (Oscar Wilde).
Metti una uggiosa mattina d’inverno nei paraggi di un mitico ponte, a Fiorano.
Ma quante volte sono stato qui?!?
Fa freddo. Pioviggina. C’è un filo di nebbia.
E c’è un pilota con un casco giallo a bordo di una macchina rossa.
Il giallo di Modena, volendo.
Il Rosso Ferrari.
A me in certe situazioni piace passare inosservato. Per godermi l’attimo in ideale solitudine.
Anche se faccio parte di un popolo.
Il popolo del ponte.
Poi sento una mano sulla spalla.
Mi volto.
Non conosco questa persona.
Mi fa: ti ricordi Leo, l’altra volta?
Metto a fuoco l’immagine.
In trent’anni e passa le persone cambiano.
Cambiano le cose. Le vite.
Solo la Ferrari è molto uguale, molto regolare.
Identica nelle sconfitte.
Eppure.
Eppure, mentre l’uomo in macchina con il casco giallo alza il braccio per salutare la infreddolita platea, mi rendo conto che è vero.
C’ero per la prima esibizione di Schumi, mi dice questo sconosciuto che all’improvviso avverto carissimo nel cuore.
Parla solo lui.
Non avevo nemmeno quarant’anni, sospira.
Adesso sto in pensione ma come canta Vasco, insomma, sì, e già, io sono ancora qua.
Siamo ancora qua, gli rispondo abbracciandolo.
Io non so se Lewis Hamilton abbia davvero compreso.
Me lo auguro e glielo auguro, perché alla fine della fiera nulla ha valore senza sentimento.
Hamilton e il pensionato è un gran titolo, purché non salti fuori un accento sbagliato.
Hamilton e il pensionato è un capitolo di un romanzo che un giorno potrei pure scrivere.
Sta venendo mezzogiorno.
Debbo andare a prendere mia nipote a scuola, borbotta il nuovo amico. Lo sai che non ha mai visto la Ferrari vincere il titolo mondiale?
Lo so, lo so.
E lui: comunque io spero che ce la faccia Leclerc.
In tal caso, nel titolo metterò l’accento.