Profondo Rosso

Enzo Ferrari, il mio libro infinito

Ormai più di vent’anni fa, pubblicai “Ferrari, un eroe italiano”.

Era il 2002.

Come sanno i miei amici più cara, è l’opera che ha cambiato (in meglio!) la mia carriera. Ho perso il conto delle ristampe. Neanche meritavo un simile successo!

Adesso, a ridosso dell’uscita nelle sale del film di Michael Mann, Longanesi mi onora di una nuova edizione.

Qualche anima buona posterà qui sotto la copertina del volume. Nella mia ignoranza digitale, io non sono in grado.

Sotto pubblico l’introduzione 2023. Mia, ovviamente.

Buona lettura.

Il suo è il nome italiano più conosciuto nel mondo, ancora oggi. Basta dire “Ferrari” e istantanea scatta l’identificazione, l’immedesimazione, la sovrapposizione.
Ferrari uguale Italia. Anche nel tempo della globalizzazione, della contaminazione socio culturale, del “melting pot” come dicono quelli bravi.
È possibile, se non addirittura probabile!, che al diretto interessato la cosa garberebbe non poco. Non in nome di una adesione presunta a post moderni modelli politici. No: semplicemente ma non banalmente, Enzo Ferrari, classe 1898, si riconosceva in una idea Risorgimentale di appartenenza. Alla Patria, con la maiuscola.
È curiosa, senza essere contraddittoria, la costante rivendicazione della italianità che sempre fu all’origine delle scelte, umane e professionali, di un personaggio che aveva, nella assenza di confini e barriere, la vera cifra esistenziale.
Enzo Ferrari adorava Mazzini, Garibaldi, Cavour. Non riusciva ad immaginarsi lontano dal concetto di Nazione. Scrisse che si era commosso, lui liberale per vocazione, sentendo Enrico Berlinguer, leader iconico del partito comunista, evocare l’amor di Patria in suo discorso. E non per caso rifiutò di cedere agli americani della Ford l’azienda che aveva creato a Maranello: gli sarebbe parso un tradimento. E magari oggi sorriderebbe compiaciuto, davanti a quotazioni di Borsa che attestano come, da sola, l’azienda da lui fondata valga più di Fiat, Chrysler, Peugeot e Opel messe assieme!
Descritto così, questo grande italiano del Novecento potrebbe sembrare un nostalgico, il testimone di un sentimento, appunto il nazionalismo patriottardo, frutto di quella parte di secolo breve da dimenticare.
Invece, così non è.
Enzo Ferrari ha avuto il coraggio, meglio ancora l’audacia, di sommare al rispetto delle tradizioni, un retaggio familiare, una visione lungimirante del futuro. E che futuro.
Tanto per cominciare, ha scommesso sulla tecnologia. Oggi è facile, per chi intenda proporsi come imprenditore, darsi come modelli Steve Jobs o Elon Musk. Lui però ha giocato d’anticipo. Veniva dalla provincia profonda, da una Modena ancora sostanzialmente rurale, agricola. Ha intuito che figli e nipoti dei contadini di quelle terre, Maranello e dintorni, avevano il diritto di sognarsi meccanici e ingegneri: e così, lontano da Detroit o dalle officine di Germania, insieme a loro, ai poveri delle campagne, ha inventato le macchine più belle del mondo.
Non solo. Imprenditore in epoca di Guerra Fredda, quando per un industriale del Nord italiano era tabù qualunque apertura al sindacato di matrice comunista, beh, Enzo Ferrari non esitò a dichiarare che a lui non interessava per chi votasse un suo operaio. Gli interessava sapesse far bene il suo mestiere!
È in questo mix fra idealità e pragmatismo che forse dobbiamo cercare, ancora oggi, l’irriducibile popolarità del Mito. A lui sono stati dedicati libri come questo, film come quello del regista hollywoodiano Michael Mann, fiction come quella con Sergio Castellitto, eccetera. E ancora ce ne saranno, proprio perché il soggetto è globale, multiforme, irresistibilmente non riconducibile ad una dimensione sola, ad una dimensione unica.
Quando Ferrari mori’, nel 1988, un fuoriclasse del giornalismo come Indro Montanelli lo ricordò come uomo dal brutto carattere, aggiungendo che per avercelo brutto un carattere lo devi possedere. E che carattere!
Enzo ha attraversato il suo tempo, comprese due Guerre Mondiali, mai rinunciando al sogno. Da bambino si era innamorato di una automobile da corsa. Aveva deciso che quella un giorno costruita da lui sarebbe stata più bella, più veloce, inconfondibile. Unica. Ci è riuscito. Partendo da zero, dal niente, facendo vendere casa a mamma Adalgisa pur di inventarsi pilota, primo gradino della scala che aveva come tetto il cielo.
La Ferrari!
C’è un motivo se il nome, il marchio, il brand!, catturano inesorabilmente l’attenzione collettiva. C’è un motivo se, come disse proprio Enzo, “chiedi a un bambino di disegnare una macchina e lui la colorerà di rosso”.
C’è un motivo, appunto. Il motivo è quel signore modenese che visse di emozioni e per le passioni, alimentando suggestioni che mai si sono spente. Enzo Ferrari ha trovato in un motore, in un telaio, in quattro ruote il suo Sacro Graal. Ha dedicato energie e pensieri alla forza inarrestabile del Progresso. Da giovane aveva letto i Futuristi e si era riconosciuto nella convinzione che non si dovesse avere paura di osare.
Quell’intima persuasione lo avrebbe portato ad individuare nelle corse, cioè nella competizione estrema, la suggestione totale. Ferrari era la Ferrari che gareggiava: sulle strade della Mille Miglia, sulle curve di Le Mans, sulle piste della Formula Uno. Pretendendo di trasferire poi sulla produzione di serie, sui gioielli confezionati per i clienti, l’innovazione sperimentata inizialmente al fine di conquistare un altro trionfo.
Diceva: la vittoria più bella sarà la prossima, la Ferrari più bella sarà quella che ancora devo costruire. A sua insaputa, era già un genio del marketing. Ennesima apparente contraddizione, se si pensa che come imprenditore in quasi cinquant’anni non spese mai un soldo in pubblicità. Era lo spot permanente e vivente di se stesso. Enzo Ferrari era il Prodotto, era la Ferrari.
Non stupirà allora comprendere come la sua mirabolante avventura umana sia stata, anche, un inno feroce alla complessità. Enzo non fu mai un uomo banale, anzi, sarebbe lecito affermare che ripudiava il concetto stesso di “normalità”. Nell’Italia bigotta e codina del tempo che gli fu dato vivere ebbe due figli da due donne diverse. Nascose con ostinazione il privato agli occhi del pubblico, lui che era famoso come un Papa.
Anche qui, riaffiora il principio di contraddizione. Dichiaratamente non credente, attribuì ad un monaco benedettino il merito di averlo convinto a non mollare l’automobile e le corse dopo la tragedia della Mille Miglia del 1957, costatagli un ingiusto processo e persino il ritiro del passaporto, provvedimento riservato ai sospetti di gravi reati. Il Vaticano non gli risparmiò critiche feroci per le morti sui circuiti: eppure alla fine, a proposito di Papa!, nel 1988 Giovanni Paolo II volle visitare la pista di Fiorano e gli telefonò per ringraziarlo di quanto aveva fatto nella lunga vita da “agitatore di uomini”, come Enzo amava descriversi.
Eh, Ferrari! Un italiano atipico, un italiano che mai si pianse addosso, un italiano che fra tanti difetti, che non negava, seppe esaltare il pregio di una profetica tenacia. Non un santo, ma a suo modo è stato un eroe. E lo sapeva.
“Io sono uno che ha sognato di essere Ferrari” (Enzo Ferrari, 1980).

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