Omaggio a Italo Svevo / 2: ‘Travisamenti d’anima tra Svevo e Tozzi’ di Giacomo Trinci
VEDI IL VIDEO Giacomo Trinci parla di Svevo e legge suoi versi dedicati allo scrittore
Firenze, 20 dicembre 2012 – Secondo puntata del nostro Omaggio a Svevo con i bellissimi versi che Giacomo Trinci ha dedicato allo scrittore, immaginando un ideale dialogo – poetico e drammaturgico – tra l'autore triestino della Coscienza di Zeno e lo scrittore-fratello senese Federigo Tozzi.
Per le circostanze in cui il poemetto Travisamenti d'anima tra Svevo e Tozzi è nato si rimanda direttamente all'intervista del video che correda il post. Basti qui ricordare che Giacomo Trinci, pistoiese, è uno dei più validi poeti italiani d’oggi. Tra i suoi libri citiamo Cella, Voci dal sottosuolo, Telemachia, Resto di me e Senza altro pensiero. Con Francesca Corrao ha tradotto la raccolta di poemi di Adonis Nella pietra e nel vento e vari poeti arabi. Ha collaborato a «Stilos» e «Antologia Vieusseux» e collabora attualmente ad «Alias». Ha scritto e portato in teatro una versione in versi di Pinocchio e una di Don Chisciotte. Ha vinto di recente il Premio Ciampi-Valigie Rosse con la plaquette Sul finire.
Marco Marchi
Travisamenti d’anima tra Svevo e Tozzi
(Zeno Cosini in una stanza, dopo la cura, apre gli occhi lentamente. Fuori, la primavera scopre silenziosi prati, sbocciati come da un mondo tramontato. Attraverso parole già scritte, inizia stupefatto l’evocazione di personaggi, figure che per la prima volta s’incrociano. Il miracolo della letteratura, dopo la distruzione e la morte.)
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cosa faccio qui? rivoltato in versi,
tumefatto in un metro fatto d’altre
voci, pestato e ripestato in persi
prodigi e detti... adesso che le scaltre,
incomprensibili smanie di vita
son scivolate, e la natura madre
abbandona la spietata partita
del giorno dopo giorno, dentro il padre
mi sento, il padre mio che la smarrita
scrisse vita mia già dentro il quaderno
delle ore... e tutto un lieve grido scosse,
quello di un uccellino dell’inverno,
strangolato dal gelo nelle rosse
sere, che pure tenta un canto. In quale
lingua o idioma rubricato; in quale iato
d’erbe, amori, malattie, rinvoltolato?
(Nell’altra cameretta, divisa da un muro comune, sopra un letto gualcito, si trova una giovane prostituta morta affogata; è come risvegliata dalle parole cantate da Zeno nella stanza vicina, e riprende il filo di un racconto infinito.)
...abolita ogni vita, sento dietro
di me mutata in muro la tua voce,
che di là mi raggiunge, e si fa metro
del male dove l’uom si eterna in croce,
e più s’interna in consumate forme
di salvezza... cancellate l’atroce
speranza, e quello che ci fa conforme
all’uomo, all’infinita veglia insulsa
che è la vita! Zeno, dentro mi dorme
l’essere tuo borghese, e la ripulsa
a diventarlo mi incatena al sonno.
Ecco che dalla vita sono espulsa,
dimenticato dono del profondo,
cagna immonda, spelata e imbastardita.
caro zeno, spietato nel tuo mondo.
Madre puttana, ora che della vita
sento il fiato lontano imedicato,
non perdono, ma sento la svanita
tua colpa d’esser madre al mio peccato,
la vedo sprofondata dentro il male
di tutti, e la pietà ho qui riportato.
“se tu sapessi come sa di sale”...
ed ho sognato bestia esser mio padre...
Zeno
...se tu sapessi come sa di male
l’esilio mio di figlio, informe madre
che raccogli il mio pianto d’animale,
il mio peso d’involucro indifeso!
se tu sapessi, ma già tu non sai,
animale già tenero, ed offeso
dall’altrui sapere che ora disfai
nel tuo sonno di morta, in quella stanza,
offesa dal mattino che ora avanza...
(Dall’altra stanza, la piccola Ofelia morta riprende la parola, e in un leggero, ma faticoso sonno dice:)
...ed ogni offesa il dire sopravanza.
quella mattina, quando fui picchiata,
era lucida l’erba, e la distanza
dagli uomini a coltello penetrata
con le percosse mie, su me: natura
d’umile mota immonda, sventurata...
oh carne, oh fango, mostro di fattura!
sentii schiodarsi il crocifisso al muro,
schiantati i legni dentro la sciagura;
ed una paroletta nell’oscuro
mio sonno, ecco, mi venne da lontano,
da lontano mi venne un nodo duro
di pietà. ma crudele il mondo vano
riconficcò quei piedi al cristo in croce;
ed io son morta in un sonno sovrano.
vedi, son quasi fatta fata atroce.
Zeno Svevo
fatina mia di fumo, l’angiolina,
nell’emilio brentani concepita
come un niente di mente, leggerina...
qui la risento ancora, ed abbellita
in cumuli di liriche la sfumo:
“sola e pensosa, sovrana di vita
passa e ripassa a mio uso e consumo”,
dicevo nella vita che ci opprime.
fumo di libertà che dentro assumo,
come ben ti sfilacci sulle prime
patetiche distanze del ricordo;
la vita ormai lontana, nelle lime
del pensiero che acuminano accordi.
la testa sulla spalla, vanitosa,
quando passeggiavamo; ed io, l’ingordo,
solo per te sentivo quella rosa,
attraverso di te le acute spine
eran profumo, per il fumo a iosa
che spandevo nelle fredde mattine
al tuo fianco, come un padre rinato
che si vede in un sogno, avvoltolato.
Zeno
...un giardino di fumo che imprigiona!
scivolate le trame della vita,
la tua parola sento che risuona
da quella stanza cupa e sbigottita.
il vento tra le fronde soffia libero
di me; cavalca lieve la ferita
che è l’uomo, che era l’uomo, nelle fibre
di un mondo che è scoppiato, giunto al fine.
l’aiuola che ci ha reso solo cifre,
che ci fa tanto feroci al confine
l’uno con l’altro, si è incendiata,
si brucia e incenerisce. le sue spine
fumano lievi, e sono solo fumo;
della vita passata il suo profumo.
Tra vecchi e giovani
Il vecchio Zeno e il padre morente
… l’esclusione qui dentro, e quel sudore
si faceva di morte..., ed ogni padre
se ne andava con lui nel disonore
che sentiva fiorire, mentre ladre
le palpebre chiudevo e rivedevo
l’affetto grande, le ore mie leggiadre
di bambino amante che insonne bevo
i raggi adulti del sole paterno...
l’avvenire era dietro, il mio sollievo
nel passato risorto nell’interno.
la mano carezzava il capo bianco
oh dolcemente so ben io, l’inverno
del ricordo, dentro il violento branco
dell’ore forsennate!... E ti guardavo,
più della morte, che del mio rinfranco;
ti chiudi nella tana dell’incavo...
oh fermamente, so ben io, si chiude
il rubinetto al tempo! e gocciolavo
nella memoria mia che più mi chiude
dietro, all’infanzia, al grido primo e lieto
per te, mio padre, alle tue forze nude.
Remigio Selmi
....padre mio, nel delirio, ogni divieto
nell’agonia di morte si fa umano.
alle tue nude forze mi disseto,
e la pietà col suo coltello in mano
mi assale viva dietro buie porte.
ritorno incattivito da lontano
odore mio di sangue, odore e morte
dentro me da te stesso anticipata,
mentre proseguo fingendomi forte
le mie disubbidienze di giornata.
ecco la luce bassa, ormai ti vedo
risprofondar dentro un mugugno cieco.
Zeno e il padre morente
...ecco quel giorno che sottrae ogni giorno,
quel nero giorno senza più dimane
che, logorato, guardo muto intorno;
se te ne vai, con me le carovane
perdono ogni speranza del tragitto,
e a chi prometto quello che rimane?
sul letto a te vicino a capofitto
mi sbatto dentro un pianto scongiurato:
che venga, venga, e bagni ogni delitto
da me commesso contro il tuo commiato;
perdonami la vita che ora lasci,
scioglimi dal legame che mi hai dato!
spengo la luce, prima che mi accasci
la tua mano su me, e non veda il mondo
quel che eterno mi macchia nel profondo.
Il vecchio Zeno
...ed interi
vedo nei solchi delle cicatrici
le melodie dei giorni, i gangli veri
della disarmonia, le adulatrici
sirene del tormento mio borghese.
solo e perduto il vecchio, senza amici,
ha per amici l’ombra, le difese
accurate di me che scrivo ancora
queste mie poche righe per contese,
liti infantili al tempo che scolora...
Paolo
...il vento soffia dentro e mi accalora
come un dio che mi incendia e accieca tutto!
presto è quel giorno, vicina è quell’ora
che vedrò il mio signore nel suo lutto,
disperso errante in un giardino vuoto,
ed io lo seguirò quasi distrutto...
tu che meglio di me sai quel che, ignoto,
mi brucia dentro nella vigna guasta,
tu che misuri il passo mio devoto
a quel che perdo, e che mi perde, e basta,
calpestami col tacco del perdono,
carezzami col pugno che si accascia...
respingi, accogli il canto che ti dono,
il canto morto dentro il mio morire,
il canto nudo dentro il nudo suono...
oh poter la tua pelle rivestire,
pelle armoniosa ed arida di vecchio
che dell’acqua di vita ha vuoto il secchio!
Il vecchione
… del corpo scruto l’orrendo apparecchio
che tu vuoi rivestire quanto prima
con l’anima affannata in uno specchio,
affannata di uscir dalla sua cima.
augusta dorme, e rumoreggia il fiato;
senti, senti il respiro che ne lima
gli organi, e nel riposo disarmato
entra, fruga, consuma i suoi minuti
nel minuto lavoro smemorato.
la coscienza mobilita i rifiuti
che, sveglio, mi tormentano, e protesto,
povero clown che riscuote i più acuti
anticipi della rassegnazione.
forse del vecchio ho viva l’abiezione.
Adele, ammalata di giovinezza
...con tanta fine in giro, ecco ci muore,
ci è morto tutto intorno a noi, che ancora
di troppa giovinezza, come un fiore
ci ammaliamo da sempre. in quella rosa
mi sono acciecata. Ho fatto un triste
sogno, pieno di mostri e di carneficine...
...eternità d’infanzia senza date,
la nostra vita non ha più alcun pregio,
non so quel che mi lega a smisurate
genealogie; so che il mio sacrilegio
d’esser nel mondo non avrà mai fine,
non avrà fine questo acuto sfregio...
ho sogno di passato...
e quando vien lo sgelo il sole è mio,
cantavo ancora, il primo sole è mio...
Il vecchione
…fammi entrare nell’ombra, mia vecchiaia,
sorella di dolore e ribellione!
fuori sento le voci giù per l’aia,
le voci della vita in un magone
scomposto, senza requie, che una gaia
giostra d’inganni guida e d’illusione;
ed io sto dietro, ed un pensier m’ammalia,
solo di carta, e reo di compassione
per me, per tutti, per quel fuoco acceso
sotto braci d’amori, di speranze.
nell’ombra fammi entrare, ben arreso
ad essere scrivano di me stesso,
calmo e preciso con la man che trema;
per ogni malattia pronta la lena.
Paolo
(Da lontano, arriva l’eco smorzato del duetto delle ciliegie, dall’Amico Fritz.)
...e mentre dalle cose mi licenzio,
mi rimangono nude le parole
tra nudità di rose, acuto senso...
in quella melodia che più mi duole
canta un’acuta arcadia invelenita,
che mi sanguina densa dalle dita...
Il vecchione ad Augusta: una novità nella stanza.
...l’ultimo mio strumento è stato tolto,
il violino dal posto definito
una volta per tutte...
non scherziamo, mia augusta, non svendiamo
la vita a così poco prezzo, a vili,
piccole dosi che mi fanno gramo...
piccole dosi di sbadati gesti
che staccano da quel che potevamo,
che spostano il tempo in nuovi contesti.
Adesso più non lo riprendo in mano,
più non mi incanto a quel che crederesti
i luoghi freschi delle pie intenzioni;
tutto questo è passato, l’hai staccato,
muovendo dall’ingombro le canzoni
insieme allo strumento che le suona:
che le suonava, e il nuovo mi imprigiona.
Federigo
...come sarei, come sarei contento
vedermi nato là dove sei nato,
e la carne sentire nel tuo vento
che mi soffia burrasche sopra il capo.
avevo nella bocca una farfalla
di lodi a te, per te; ma senza fiato
è rimasto il mio canto, e senza spalla
il mio dolore muto. le straniere
contrade della vita hanno la gialla
immediatezza delle cose vere.
come sarei, come sarei sgomento,
camminando e pestando le maniere,
non ritrovar che me nei tuoi dintorni.
e più cercando fuori giorni e giorni,
sprofondar sempre dentro, trucidato.
oh giovinezza mia nel tempo dato.
Il vecchione
...lo strazio del respiro è prepararsi
a non più riposare, è condolersi
e lavorare al nostro lento sfarsi...
la vita nella fine è un rituale
preciso e netto di separazioni
che dolgono la notte, e per le sale
vuote del tempo solo privazioni,
vani inganni travagliano i miei sensi;
travagliano di lutti le prigioni
d’una vigilia ansiosa negli stenti.
non dormo più la notte, per morire,
per morire a ogni cosa che diventi;
fra un respirare e l’altro nelle spire,
c’è il respiro più grande della morte
che mi vieta il riposo, e le sue scorte.
Svevo: pensando a Livia
...occhi di veglia, insonnia mia demente,
la vecchiaia dei sensi anticipata
è vivere la vita più inclemente,
selvaggi in una selva intenebrata.
rubato il tempo, il tempo più s’accorcia,
s’accorcia in una luce disvelata
che fa sentire il fato dura torcia,
che brucia a noi davanti, alla vecchiaia
ed alla sua ventura. si accartoccia
l’amore, Livia cara, e la mannaia
dell’ore mi acutizza in vizio il suono
dolce dell’abitudine; e tu, gaia,
ti presti con la tua virtù armoniosa
a regalarmi tutta la tua rosa.
questa notte m’è inquieta, ma perdona,
chiedo al sangue che a te corre deciso:
vecchio, te giovane, sentii, diviso...
Svevo, ad un vecchio grammofono: ascoltando il duetto d’amore, nel primo atto dell’Otello di Verdi
… tale è il gaudio dell’anima che temo
cara Livia, che spenti i miei borghesi
vizi di carne e nervi, qui saremo
distaccati biografi cortesi
di noi stessi, rivolti al mondo vero
che verrà, che ci vorrà nei distesi
nodi indissolubili del desiderio...
che più non mi sarà concesso, temo,
quest’attimo divino, disse il nero
Otello, nella notte sua amorosa,
l’unica notte, l’unica sua ora!...
Giacomo Trinci
(dal sito del Premio Letterario Castelfiorentino, Aspettando il Premio 2012, Testi)
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