Arturo Loria, grande dimenticato
VEDI I VIDEO Iaia Forte legge Loria: “Il caffè arabo” , Per conoscere Arturo Loria: la vita e le opere , … e bibliografia e giudizi critici , Montale rievoca i suo anni fiorentini e cita Loria (1966)
Firenze, 17 novembre 2014 – Sempre più solo, sempre più consegnato al silenzio. Arturo Loria – autore di cui oggi ricorre l’anniversario della nascita, essendo nato a Carpi, nel modenese, il 17 novembre 1902 – resta tra i grandi dimenticati nel nostro Novecento.
Eppure l’importanza dell’anomalo scrittore solariano, fiorentino d’adozione, Arturo Loria (si pronuncia Lòria e non Lorìa come purtroppo spesso si sente) è indubbia: un Maestro – senza paura di esagerare – del racconto italiano novecentesco, il cui percorso creativo all’inizio singolarmente ricco di carica ispirativa e risultati a un certo punto si problematizza ed entra in crisi, si rende talmente impervio, dubitante di se stesso e delle proprie possibilità, da bloccarsi.
Per gradi la narrativa di Loria, soprattutto nei racconti della bellissima terza raccolta La scuola di ballo, del 1932, si era accinta per suo conto a semplificare i suoi iniziali apparati scenografici e manieristici, avventurosi e picareschi, a favore di una intensità della pagina aliena da ogni effettismo, da ogni sospetta forma di decorazione.
Una deliberata, mirata normalizzazione pseudo-realistica del narrare si era innescata. I guitti, gli angeli precipitati del Cieco e la Bellona e di Fannias Ventosca avevano ormai dismesso la loro esteriorità esuberante, da parata; i loro impilotabili vagabondaggi avventurosi, da principi e da zingari, si erano trasformati in itinerari verticali spietatamente interiorizzati, autoinquisitoriali, in linea con una nuova, più esigente tensione dello scrittore a mettersi a nudo: per «scendere – come Eugenio Montale parlando di Loria a suo tempo suggerì – nella regione che sola conta: quella del cuore umano».
La crisi dello scrittore e la sua paralizzante ossessione scrittoria si rivelano per la prima volta proprio in occasione del conferimento del prestigioso Premio romano dell’«Italia letteraria» intitolato a Umberto Fracchia, nel 1933: con uno sbaragliante «momento triste» (così Loria commenta la sua festeggiatissima affermazione consacrante), una continuità di immagine e di esercizio bruscamente si interrompe.
Loria continuerà ad abitare a Firenze, a vivere e frequentare i suoi amici negli spazi culturalmente qualificati e storicamente cangianti di una città, come pure a pubblicare sulle sue altrettanto qualificate riviste (dalla bonsantiana «Letteratura» ad «Argomenti» di Carocci, da «Pègaso» e «Pan» di Ugo Ojetti all’inaugurato «Ponte» di Calamandrei), ma comincerà a sentirsi e a presentarsi presso gli altri come l’«erede di sé stesso»: un sopravvissuto scrittore «disperso e inascoltato», attanagliato dalla sfiducia nei propri mezzi e dal silenzio, per il quale ripensare al passato, alla sua «vita scritta» di secondo grado un tempo realizzata e così radiosamente accolta, si configura sempre di più nei termini angosciosi di un colpevolizzante ricordo, di un rimorso volto giorno dopo giorno ad aggravarsi e ferire.
Negli anni Cinquanta, mentre la morte incombe su di lui, lo scrittore si volge ormai di preferenza, sia pure con esiti espressivi di diversa remuneratività, al mondo antieroico, naturale ed ermeticamente sigillato, inesorabilmente vessatorio e vessato, degli animali. Nel nome della chiarezza, le virate in ambiti classici e formalistici, a suo tempo emblematizzate da un pubblicato dramma mitologico-satiresco come Endymione e ora rese visibili dal moderatismo colloquiale-oraziano di una semplice comunicazione epistolare, danno luogo alla composizione di sobrie, quintessenziali moralità di tipo favolistico e, insieme, all’infittirsi di dolenti composizioni in versi. Dall’antiumanistico, chiuso mondo degli animali, dei più tellurici e quasi invisibili animali, dai più ignorati e nascosti, dai più perseguitati e bistrattati: da questo ultimo mondo dell’ingiustizia e dell’assurdo, da un universo di senza parola, Loria ci si profila ancora, né più né meno che in un antico, mirabile racconto intitolato Il falco, come uno scrittore in cerca di «calore», alla ricerca della vita.
Pure in accezione di scritture terminali sufficientemente parallele, analogamente concentrate e tormentate (l’assillo è testimoniato dall’impressionante congerie di redazioni e redazioni accumulate), sul Loria illuminato, bonsantiano delle Settanta favole sopravanza di sicuro l’eccentrico, recluso ed elegantissimo poeta del Bestiario: un autore civilmente inutilizzabile, esibitamente fuori del tempo e delle sue cronache, contratto, tragicamente lirico e differito, dedito ad altre vite, tanto da far pensare a Schlegel – «Come una piccola opera d’arte, un frammento deve essere totalmente staccato dal mondo circostante, e chiuso su se stesso come un istrice» –, o al testo stesso di tipo poetico secondo Derrida: «chiuso a riccio, irto di spine, vulnerabile e pericoloso, calcolatore e inetto (si espone all’incidente proprio perché, sentendo il pericolo sull’autostrada, si appallottola)».
Marco Marchi
Il falco
L’impagliatore d’uccelli si mosse incontro al cliente che arrivava in bottega proprio al momento di chiudere. Costui veniva avanti a passi timidi, presentando un piccolo cesto chiuso, come un titolo valevole per l’ingresso.
«Che desidera? In che posso servirla?».
Il nuovo venuto si guardò intorno, s’indugiò ad ammirare la pennuta morte mummificata sul banco, dentro gli scaffali e la vetrina, e disse:
«Ci ho qui un falco, ma vivo».
A veder la sorpresa dell’altro aggiunse subito:
«lo non so in che modo ammazzarlo: ho paura che si sciupi. Lei, ch’è pratico, non può far mi questo piacere? Dopo, s’intende, l’impagliatura sarà lavoro suo, perché voglio serbarlo».
«Veramente… », stentò l’impagliatore, «io lavoro solo su bestie morte. Un falco può essere pericoloso… e se mi scappa?»
«Non può scappare», rispose l’uomo dal cesto con un calmo sorriso. «VuoI vederlo? Gli ho fatto un cappuccio», e prese a sfibbiare le cinghiette del coperchio. «Povera bestia!», mormorò slacciandole con improvvisa fretta. «Deve aver molto sofferto nel viaggio, ma spero sia ancora fiero. Era così bello. Guardi, ora, com’è ridotto!».
Alzato il coperchio mise una mano un poco esitante sopra un corpo pennuto e grigio che occupava il cesto.
«È vivo bene: caldo caldo», disse poi, strisciando la mano a ricomporre le penne arruffate.
S’udì un soffio, uno strido strozzato, gattesco e orribile.
«Come l’ha conciato!», esclamò con allegrezza l’impagliatore. «Pare una vecchia!», e s’incantò ad ammirare il falco che, drizzatosi dentro il cesto, sporgeva fuori la testa strettamente fasciata di garza sporca e sdrucita, appena schiusa a far passare il becco adunco e come spaccato in due da un lucido riflesso.
L’uccellaccio alzò una zampa all’altezza degli occhi bendati, la protese a tentare il vuoto oscuro, poi, ricalatala strinse gli artigli intorno all’orlo del cesto, zoppo, tutto pencolato da una parte.
«lo credo che con un ago grosso…», fece il cliente, aprendogli con un dito le penne sul petto; e mostrava così tutta la sua voglia d’assistere all’operazione.
L’impagliatore non dette risposta: sorrise nell’indicare la mano protetta da un cencio, sollevò l’animale e andò a posarlo su un trespolo da pappagalli.
«Chiuso com’è nel cappuccio non ha coraggio di muoversi», disse invitando l’altro a osservar la scena, e con uno scopino da spolverare spinse l’uccellaccio che, starnazzando le ali, mantenne il suo equilibrio su la cannetta di ferro.
«Dunque», riprese il padrone del falco e fece atto di richiudere il cesto, «me lo ammazza lei o no?»
«Posso anche ammazzarlo; ma non ora. Non vede che son già vestito per uscire? Domattina, appena aperto, ci penso io. Del resto è bene aspettare: così, si ripulisce dentro».
«Ma dimagrerà, diventerà brutto».
L’impagliatore rise: «Ci son io a gonfiarglielo di paglia e bambagia. Lo possiamo lasciar lì; tanto, è timido come un pulcino», e spinto fuor di bottega l’uomo dal cesto, calò la saracinesca, mise i lucchetti e si avviò con quello, ch’era rimasto ad aspettarlo sul marciapiedi per contrattare del prezzo.
La lampada centrale, rimasta accesa per distrazione dell’impagliatore, ardeva abbagliante nella bottega.
Il falco, atterrito dal rombo della saracinesca, si teneva fermo, grigio e ferrigno sul trespolo, la testa nascosta sotto un’ala.
A un tratto la liberò e la spinse in avanti. Il suo fiuto avvertiva un acuto odore di penne e di piume, un odore simile a quello dei nidi abbandonati, quando per il tempo s’è fatto freddo e incorruttibile.
La lunga prigionia del cesto aveva talmente mortificato in lui il senso della vita volatile, che a ritrovarlo in quell’odore si credette precipitato in un cavo di pietra sopra la montagna spelata della sua dimora abituale: solo mancava all’intorno quel fiato lungo d’aria che solleva le penne e le ricompone come una carezza.
Dopo il primo rombar di folgore nient’altro di terribile giungeva al suo udito: duravano dei piccoli colpi lontani, degli struscii e un rotolar di cielo tempestoso, ogni tanto, ma lungi, forse su la pianura.
Rassicurato provò a sbatter le ali. Larghe, bene aperte, le sventagliò in un’aria greve, che si smosse destando una risuonanza troppo immediata, un tremolio di vetri misterioso.
L’ambiente piccolo gli pesò sulle ali timidamente placate. Con una mossa tremula ed esitante portò l’artiglio sul cappuccio di garza, e riconosciuto che si poteva lacerare rivolse la sua forza a liberarsene.
Più volte, menando gran colpi all’impazzata, si ferì la testa e il collo. Col becco libero tra i legami allentati inseguiva alla cieca le codine e gli sfilacciamenti della garza e li strappava contorcendosi in posizioni penose, mentre ogni tram che passava nella via, ogni carro, era un frastuono di vento tra le rupi, un frastuono pieno d’echi nuovi per lui, caduto senza memoria in una caverna.
Per mantenersi in equilibrio su l’ignoto abisso che sentiva da ogni parte, vibrava le ali freneticamente, riempiendo di clamore e di romba la stanza.
Dall’aria così smossa veniva più forte di prima l’odore di nido abbandonato. I lacci, nel gran tirare, si erano ristrettiti sugli occhi. Il falco protendeva il collo e lanciava uno strido basso in avanti, come contro un nemico, cinque, dieci volte, poi, estenuato, taceva e riparava il capo sotto l’ala.
Quando riprese la lotta era calmo, lento: cacciava gli artigli fra le sue piume e la garza per sbranarla dal di dentro, con maggior presa. Li ritraeva sanguinanti e tre muli di sforzo, impigliati di fili e brandelli dai quali penava a liberarsi.
Improvvisamente i legami allargati scivolarono dalla testa sul collo. Sembrava che con quelli anche una grande paura fosse scesa ad agghiacciare il rapace, tanto stava immoto.
Le bende si fermarono su le prime penne irte del collo. Allora, sussultando con piccoli colpi d’ala, il falco si ricompose e le fece scorrere più giù.
Era libero: alzò le palpebre nere e doloranti.
Uno strido, e fulmineo fu su la colomba, una picciona grassa e smagliante, fissata su un sostegno che imitava un ramo secco.
Piantò gli artigli nella schiena e vibrò il becco affamato nella gola. Dai muscoli delle ali al suo collo si vedeva passare a onde lo sforzo di spingere e sprofondare il becco.
Non gola calda e piena di sangue fluttuante, non un grido, non un rattrarsi di spasimo; ma un groviglio freddo e tenace.
Il falco ritrasse dalla ferita il becco ferocemente serrato: ne usciva un fiotto lungo di paglia. Cieco, pazzo, tornò ad avventarsi sul corpo straziato della colomba, finché la sua furia non trovò più che un pugno disfatto di paglia e di penne.
Levò gli occhi crudeli alla lampada, incredulo del sole dopo la sorpresa, e si slanciò a raggiungere il sostegno del trespolo.
Scarruffato e torvo s’agitava alla vista di uccellacci smisurati ritti su piccoli piedistalli, a ogni angolo della stanza.
Un fenicottero fiammante, un pellicano dalla gran borsa pendente, un altro, orrendo e crestuto, lo fissavano immoti e sicuri. Di faccia, dentro la vetrina, si appollaiavano altri volatili dalla coda lunga, sfidavano la sua fame un nido e una sfilata di piccoli pettirossi.
Silenzio, come quando nel bosco veniva avvistato il suo alto volare a ruota.
Partì come una freccia: urtò gli artigli nel vetro, e vide, precipitando, una grande ombra paurosa.
Nella caduta si era contuso un’ala: indolorita ora penava a muoverla.
A piccoli passi entrò sotto l’ombra di un mobile come in un rifugio. Là, stridendo e soffiando quasi per avvertir gli altri pennuti della sua presenza, cacciava fuori, ogni tanto, la testa e guardava all’intorno.
Erano quei pennuti ben composti, immoti e severi come non ne aveva visti mai. Il fenicottero stava ritto su una sola delle zampe brune e minutamente scagliose, l’altra sollevata come a spulciarsi tra le piume del petto; gli uccelletti colorati erano tutti in atto di beccar qualcosa su un legno, un monticello sabbioso, un sughero dipinto. Qualche aggruppamento, con famigliarità sconosciuta nel bosco, stava intorno a una dònnola scura, posava sul ramo, dove uno scoiattolo s’era fermato, ritta la coda fioccosa. Un picchio verde aspettava dal peso della coda la forza di ribattere il suo martelletto nel buco ben scavato di un bastoncello; una civetta, incantatrice impietrita, teneva fermi gli occhi gialli nelle occhiaie a vortice di pennette grigie, noncurante d’uccellare o far preda.
Nei loro atteggiamenti istintivi si capiva un senso trasecolato di pace, la certezza di non mutare, come se l’atmosfera della più bella mattina del bosco o della palude avesse accompagnato ciascuno al suo piedistallo o al suo scomparto dentro la vetrina. Perfino della ristrettezza non parevano sentire i limiti, ché, i più forti volatori avevano le ali aperte trionfalmente, senza alcun senso di peso, e se non partivano, era per la gioia di farsi sorprendere con vivi tutti i colori che nell’aria si fondono e nelle dimensioni non falsate dall’altezza.
Il falco uscito dall’ombra del mobile sembrava cercasse nel fenicottero l’iniziazione di quell’invidiabile mistero. Finalmente, fatti due o tre salterellini, gli volò in groppa, e, cauto, col becco frugò tra le penne.
Sentì la buccia secca sul falso corpo vuoto di sangue e di carne.
Come per una gaiezza improvvisa, dopo la prova, svolettò leggiero per la stanza, senza cercare un punto di posa. L’ombra dell’ali ruotanti nascondeva a tratti la lampada incandescente intorno alla quale aveva finito per girare come una farfalla.
Estenuato, con una vampa azzurra negli occhi, si lasciò andare a terra. L’odore di nido abbandonato era divenuto più acre; ma nessuna esperienza lo tentava più. La fissità dei suoi occhi e illustrare ingannevole dei vetri dilatava nella vetrina i confini entro i quali quei silenziosi stavano immoti. Qualcuno si gonfiava di voglia di volare esasperando l’inquietudine del falco che pure udiva un frullo d’ali. Ma a riveder tutto fermo, apriva lui le ali e dava due o tre colpi fragorosi.
Dal retrobottega, trovato un passaggio tra le due parti socchiuse di una tenda, entrò a volo un’ombra nera. Era un pipistrello chiamato dalla gran luce. Mal sostenendosi su le membrane tremule compì alcuni cerchi intorno al lume e andò a posarsi con uno stridore d’unghielli sul piatto smaltato.
Il falco in allarme vedeva oscillare la lampada mentre cercava il ricordo rivelatore di quell’ombra intravista sul pavimento: un’ombra sfarfallante, non ferma come la sua, quando, sotto il sole di mezzogiorno, si compiaceva di vederla grande e lontana percorrere la terra. Di quell’ignoto volatore indovinava appena un vellutato sussulto all’orlo del piatto.
Impaurito, fece un faticoso sforzo per aprire le ali e rinchiuderle ben strette come una fascia di protezione sul corpo magro. Strideva e soffiava di continuo, basso e roco, pel timore d’essere ad ogni momento assalito. La presenza di un altro vivo nella stanza aveva distrutto la sua sicurezza di vandalico padrone, scavando per lui, escluso da quel silenzio e da quella pace, la gelata solitudine del terrore.
Il lume oscillava appena: il nemico vi imprimeva il suo palpito.
Tra un fragor di ferraglia passarono fuochi rossi e azzurri sul soffitto, da una lunetta di vetro posta sopra la saracinesca.
Fu il segno della lotta.
Il falco si librò alto, più su del lume. La foglia nera scivolò dal piatto e impazzita fuggì, sventando il rapace a raso dei muri. Dopo un vano inseguimento, il falco, che non poteva mutare con “tanta rapidità il suo gioco d’ali, si mise fermo su la vetrina e attese il nemico. Lo vide avanzare nel breve alone della lampada, sviare bruscamente e proseguire più basso. Gli piombò sopra martellando il becco; ma dette nella membrana, che s’aperse, scucita. Il pipistrello malamente scampato a quel primo assalto cambiò forma: pareva aver tre ali e nel volo sprizzava una pioggia di sangue, rossa e brillante sotto il lume.
Il falco, appostato sul banco, stava gonfio e rappreso tra gli impagliati.
Il pipistrello ferito tentava d’aggrapparsi al muro” bianco della volta, ostinatamente; ma non reggendolo l’ala sbrindellata, pian piano calò più basso ad onta del frullo frenetico di quella sana. Incontrò la superficie del banco nella caduta e stroncò lì l’ultima disperata forza in vani sbattiti.
Ferocemente il rapace scese giù a finirlo a colpi di rostro. Nel tremore dell’agonia, il pipistrello pareva sfuggirgli percorrendo sul banco uno spazio scivoloso, allagato di sangue.
A un tratto, schifando la preda nera e sanguinolenta, il vincitore si salvò sul trespolo.
Stanchezza o insopportabilità del lume abbagliante, chiuse gli occhi, stentò a trovar presa con gli artigli intorno al sostegno e dovette sbatter l’ali per reggervisi.
Lentamente si fece corto e gonfio, il collo rientrato quasi avesse freddo. Sussultava ogni poco e apriva il becco fino allo strazio delle membranette per bere un’aria ampia e libera e rocamente emetteva un grido sempre più affannato.
Quando riapriva gli occhi, fissava dentro la vetrina la confusa immagine dei volatili, e poi il fenicottero, con una specie di estasi alla quale seguiva il tentativo di volare.
La forza delle ali lo sollevava tanto appena da farlo apparire più alto e maestoso, ma gli artigli restavano stretti al sostegno come a un perno.
In quei momenti era fiero e terribile: pareva uno di quei rapaci da emblema come s’ingegnano d’atteggiarli gli impagliatori.
Da Il bestiario
L’aquila
Adesso, puoi vedermi, prigioniera
in questa gabbia, dove non apro l’ali
divenute pesanti. Vo morendo
di giorno in giorno, senza l’altezza,
e più non spero libertà di volo
tra le vette e le nevi. Mi consumo,
torva, in questo martirio che ti concede
di fissarmi negli occhi dilavati.
Non vi scorgi la potenza grifagna
che ora si ritorce nel mio buio e m’acceca?
Meglio per te se giungevi a scoprirmi
entro il mio nido: m’avresti capita
nella mia soggezione alla natura.
Qui, dove vorrei finire ignorata,
lasciando brandelli del mio cibo,
riesco a darmi fierezza araldica;
ma poco io reggo allo sforzo
se non ritrovo le gioie e l’orgoglio
di un’antica rapina nel cielo della valle.
Oh, sento il peso caldo tra gli artigli,
ritornano le voci, i gridi, gli innocui spari,
mentre m’innalzo in fuga vittoriosa!
Eccomi a te! Imitami sul tuo foglio
da mostrare al guerresco Imperatore
che abbisogna di un simbolo rapace,
sullo scudo, sui marmi, sulle aste.
Arturo Loria
(da Fannias Ventosca, 1929 e Il bestiario, 1959)
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