Ha trionfato ancora. Ma l’ariete Flavio Tosi, sindaco tra i più amati d’Italia, in realtà la sua partita l’aveva già giocata — e vinta — prima del voto, essendo riuscito a tirare dalla sua parte, attraverso l’escamotage delle liste civiche, anche molti transfughi del Pdl. Soprattutto, il leghista meno bossiano che esista aveva dovuto sudarsi la riconferma da parte del suo stesso partito, a colpi di minacce di ‘sfratto’ urlate dal Senatùr. Ora questa riconferma difficilmente sarà rimpianta, dato che Verona è il solo successo elettorale del Carroccio (filo-Maroni). Ed è naturale che tutti adesso scommettano sul ‘modello Tosi’, in un suo maggior coinvolgimento nella lotta fratricida (Bossi-Maroni) che deciderà le sorti di quel che resta della Lega. Da maroniano di ferro quale è, Tosi cavalca l’onda, chiede subito all’Umberto di non ricandidarsi alla leadership. Eppure, sa dove fermarsi con la politica per non intaccare l’immagine di amministratore duro e puro: «In Parlamento nel 2013? Grazie no, resto a Verona».
Il segreto di Tosi il vincente sta tutto qua. L’essersi comportato da «persona pratica» prima che da leghista. L’essere riuscito, negli anni, a passare da una condanna per istigazione all’odio razziale, dalla militanza in Forza nuova, alla foto di Napolitano appesa nell’ufficio e perfino a un’insolita (per una camicia verde) riabilitazione della Dc che «fece grande il Veneto». Tosi è stato molto criticato, accusato di familismo per la moglie promossa in Regione. Ha diviso, litigato con parte della curia ma anche con imprenditori e con la Procura. Ma ha anche unito, ascoltando di persona i bisogni dei suoi cittadini, guadagnandosi la fiducia delle fasce sociali più distanti: dai pensionati all’associazionismo cattolico, dai veronesi moderati vicini all’Api all’elogio di volti noti di centrosinistra come Massimo Cacciari. In ogni caso, ha saputo assumersi responsabilità nel nome di Verona. E questo messaggio, concreto, nell’era dell’antipolitica è stato l’unico a essere premiato.