“Ogni volta che arriva apre la borsa e tira fuori le foto. Foto del marito, della figlia, della nipote.
Lei è bella ed è ancora molto giovane. E' bionda, tinta, giallo pannocchia, ma è bella, ha una bella pelle e un bel fisico. Arriva da Sarajevo e piange. Piange perché pensa a come era la sua vita prima. E' laureata in economia e commercio, era sposata con un ingegnere. Fino al 1990 la sua era la vita agiata di una signora che lavora all'ufficio marketing di una multinazionale. Vacanze in montagna con il marito e la figlia, casa al mare.
Un giorno il marito, tornando dalla montagna, ha un incidente stradale e muore. Dopo pochi mesi scoppia la guerra. Perde il lavoro e la figlia, che ha degli amici in Italia, scappa in Toscana. Lei rimane là per tutto il tempo della guerra. Va a rifugiarsi nella casa di montagna, poi la deve vendere, poi deve vendere anche la casa in città e non sa più come fare. Nel frattempo fa un corso per diventare infermiera e per andare negli ospedali dove arrivano i corpi martoriati dalle bombe.
Nei suoi occhi verdi, sempre lucidi, si vedono scorrere le immagini dei racconti che mi fa. Bambini, uomini e donne straziati. Gente per le strade che non sa come nutrirsi e il freddo, sempre freddo. Sarà per questo che le sono rimaste le mani sempre gelide? Anche quando siamo nel nostro ufficio e parla, parla, dopo un po' le tocchi le mani e sono sempre fredde”.
Queste sono righe che ho scritto nel 1999.
Quando ho finito di leggere “Venuto al mondo” di Margareth Mazzantini, le ho mandato una mail dicendo che quel libro mi aveva preso la mente, la pancia, lo stomaco. Non riuscivo a dormire la notte perché dovevo finirlo. Ho pensato e ricollegato quelle pagine a ciò che avevo scritto nel 1999.
Ieri.
Visito l’hospice dove oggi accompagnerò la persona a cui sono più legata in assoluto. La persona che quando guarda il mare pensa esattamente le stesse cose a cui penso io e ride esattamente per le stesse cose per cui rido io e gusta le stesse cose esattamente come le gusto io.
Entro dentro questa accogliente casa che ricovera le persone che stanno per morire e il primo sorriso, il primo abbraccio arriva da quella donna. La donna bionda con i capelli giallo pannocchia, che ha messo su 20 chili e finalmente ha gli occhi sorridenti.
Lei mi abbraccia e mi accoglie.
E’ stato praticamente impossibile per me capire quello che mi raccontava della sua guerra, della sua vita, dei suoi affetti spezzati e del suo essere assente quando diceva di cercare un lavoro, ma prima di un lavoro aveva bisogno di ritrovare se stessa e dei punti di riferimento.
Quando mi raccontava del terrore, del gelo, della morte, dei feriti io forse non capivo fino in fondo, ero brutalmente più affascinata da quei racconti senza riuscire a viverli dentro perché troppo lontani dalla mia realtà, troppo impensabili per considerarli veri. Qui si stava bene e io ero felice.
Oggi è lei che mi guarda, è lei che, diversamente da me, sa perfettamente capire cosa sto provando e cosa proverò.
Si sono capovolti i ruoli, ci siamo ritrovate.
Sono contenta di avere ritrovato lei, ora mentre mi stringe le mani per salutarmi, sento che le sue sono calde.