Compleanno Mario Novaro (Diano Marina, 25 settembre 1868). ‘Murmuri ed Echi’
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Firenze, 25 settembre 2013 – È uscita di recente – a cura di Veronica Pesce, per i tipi delle genovesi Edizioni San Marco dei Giustiniani e con uno scritto prefatorio di Giorgio Ficara – l’edizione critica di Murmuri ed Echi di Mario Novaro, fratello di quell’Angiolo Silvio autore di quella Pioggerellina di marzo che tutti, dai tempi dei banchi di scuola, ricordiamo.
Un’iniziativa editoriale encomiabile e di cui dare notizia, considerata l’immeritata dimenticanza in cui è caduta un’opera di così indubbio valore del nostro primo Novecento: un’opera destinata a diventare libro di una vita, pubblicata per la prima volta nel 1912 e in seguito più volte accresciuta, pazientemente perfezionata e ristampata dal poeta.
Bastano a dimostrarlo versi figurativamente e musicalmente suggestivi come questi: «o pescavi sul molo tra gli scogli / e, calando il sole, / mangiavi il pane saporito / dai dorati spicchi condito / di ricci di mare» (dall’eponima Murmuri ed Echi); oppure, secondo un condiviso coté di appartenenza ligure che da Ceccardo porta a certo Caproni: «Stretta proda d’erba / pende sul mare / con scabri ulivi / frondadargento. // Pascolano l’aria / primaverile / magre farfalle / nell’odor di timo» (Proda d’erba).
Il riferimento più facile e diretto, per il lettore di poesia del Novecento italiano, sarà quello alla poesia montaliana degli Ossi di seppia; ma in verità è tutto un filone poetico o linea che dir si voglia ad emergere prepotentemente con una propria marcata individualità e con le sue protratte, incisive partecipazioni. Come per Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, come per Sbarbaro, per Boine e come per il primo Montale, l’affascinante e stringente dialogo che Mario Novaro instaura nei versi di Murmuri ed Echi ha come interlocutrice privilegiata la Natura e nelle fattispecie, dietro l’astrazione insita nella personificazione di una Natura con la maiuscola, i dati del paesaggio ligure, ora ruvido ed arso, ora calmo e divinamente incantato: sempre carico, comunque, di valenze simboliche.
La natura, il suo «mistero», il suo «Libro aperto» come si dice calcando Pascoli in una poesia del libro. È vero che per Novaro, come del resto all’interno della sperimentazione sbarbariana di Pianissimo, il ricorso a Pascoli e al soggettivismo lirico di tradizione risulta anche nei modi e nei significati di questo rapporto indagato («consolatrice», ad esempio, è epiteto riservato alla natura concordante nel linguaggio dei due poeti). Niente però vieta a Novaro, al di là dei connotati immedesimativi irresistibili volti ad una sorta di grande, deresponsabilizzante dispersione dell’io nella Natura, di riconoscere l’acriticismo di esaltazioni metamorfiche tripudianti come, per converso, di masochistiche, crepuscolari e rinunciatarie macerazioni.
Di qui il riaffiorare nel tessuto linguistico di Murmuri ed Echi di inquietanti interrogativi – come ad esempio «O se il tempo à mai avuto uno strappo? / o come davvero tremenda tremenda / questa infinità di tempo / che a tergo ti vaneggia?» (ancora versi dal componimento eponimo) – cui giungerà in risposta, dieci anni dopo, la conferma asseverante montaliana di Crisalide: «Ah crisalide, com’è amara questa / tortura senza nome che ci volve / e ci porta lontani».
E torna a questo punto utile l’indicazione di una forte disponibilità riscontrata attiva nell’opera in versi di Novaro, emersa fin dal 1912, all’indomani della prima edizione del libro: la preponderante presenza cioè di una componente filosofica, tra gnoseologia e metafisica, Kant e idealismo, tesa però fin dalle origini a farsi – come avrebbe scritto a acutamente nel 1946 Carlo Bo – «canto quotidiano della coscienza».
Canto della coscienza a cui obbedire, quello di Murmuri ed Echi; e canto quotidiano lontano dai fasti eroicamente attivistici di un poco giornaliero d’Annunzio e semmai, al contrario, in ammirata sintonia con l’esempio di Leopardi e con la modernità di Giovanni Pascoli: con la sua umile e interrogante poesia del «mistero», cosmicamente svolta per via di infinitesime nugae e semplici, naturalistiche myricae.
Marco Marchi
da Murmuri ed Echi
Quante volte ancora
Questi pini
questi cipressi
e le rose come sangue rosse
quante volte ancora
quando io più non sia
stupita guarderà la luna
mute cennando guarderan le stelle
sul colle che solo
restava con me
nel silenzio notturno
a meditare!
Proda d'erba
Ricordo di Giorgio De Paoli
Stretta proda d'erba
pende sul mare
con scarni olivi
frondadargento.
Pascolano l'aria
primaverile
magre farfalle
nell'odor di timo.
E nel monotono
querulo
canto del mare
io penso penso:
Dove la vIta
à la sua proda?
dove il suo fondo?
scorre la vita, scorrono l'onde.
Da cosa a cosa
a C. M. Parodi
Da cosa a cosa è spazio
da senso a senso è tempo.
Spengasi l’io:
e tempo e spazio è nullo,
nulla l’arcana infinità astrale,
è nulla il tutto
di tutto ignaro
nella insensibile
opacità.
Pure s’aprono fiori
s’aprono occhi umani:
mistero del mistero
abisso
Dio.
Tramonto
Così tutto fiorendo l’amore e l’oro
dileguando tornava
con la bella giovinezza
senza la morte e gli anni,
poi che le vele gonfie e il desiderio
navigavano i mari nuovi
sull’onde crespe,
e il mattino, sanguinando,
con le corbe d’oro e la fiamma
tingeva il mare di nuovo.
Mario Novaro
(da Murmuri ed Echi)
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