Tutta la storia è storia contemporanea. In questo che è diventato un aforisma si sintetizza l’idea che Benedetto Croce aveva della funzione dello storico: studiare il passato ma inevitabilmente leggerlo con gli occhi del presente.
Per questo alla vigilia del sessantesimo anniversario della morte del grande filosofo napoletano è giusto e utile rileggere, oltre all’opera, anche le sue vicende di politico. Politico, sì, perché il senatore Croce, pur rivestendo raramente altri incarichi istituzionali, ebbe sempre, nella sua lunga vita, un ruolo di primissimo piano negli avvenimenti italiani della prima metà del Novecento.
Croce visse due gravissime crisi della politica che per certi versi possono essere confrontate con l’attuale e da cui certamente, proprio attraverso l’analisi crociana, si può molto imparare.
Nato per caso in Abruzzo a Pescasseroli (il 25 febbraio 1866), visse sempre a Napoli, facendo la spola con Roma, e a Napoli morì il 20 novembre 1952.
Non ebbe vita facile nonostante l’agiatezza. Durante una vacanza a Ischia, all’età di diciassette anni, perse i genitori e la sorellina nel terremoto di Casamicciola. Benedetto e il fratello Alfonso si salvarono. Fu, come è immaginabile, un’esperienza traumatica mai dimenticata. Rimasto dunque solo Benedetto fu accolto a Roma a casa di un parente, il politico liberale Silvio Spaventa, fratello del filosofo hegeliano Bertrando di cui Croce seguì le lezioni. Furono questi prozii che avviarono Benedetto alla passione per la filosofia, per la storia e per la politica e che gli trasmisero quel principio morale per cui la patria è una RES SACRA a cui il singolo non può rifiutarsi. Mai.
La sua avventura romana iniziò nel 1910 quando fu nominato ‘senatore per censo’. Da quel momento il ‘virus della politica’ – come ha scritto uno dei suoi massimi biografi, lo storico Giuseppe Galasso – entrò in lui.
Il decennio che si apriva fu quello dell’Italietta di Giolitti che covava la grande crisi liberale che portò dapprima all’insensata entrata in guerra e poi a quella ‘vittoria mutilata’ che, unita alla gravissima crisi economica, dette vita a movimenti estremisti e nazionalisti che sarebbero poi confluiti nel fascismo. Negli stessi anni esplodeva la rivolta socialista sull’onda della vittoria bolscevica in Russia.
I liberali che guidavano l’Italia da lustri non furono in grado di arginare le violenze, al contrario si affidarono a quelle del neonato fascismo nell’illusione che Mussolini sarebbe stato solo una breve ‘parentesi’ nella vita del Paese.
Croce fu uno dei pochi intellettuali e uno dei pochi liberali a essere contrario alla Grande Guerra, ma nel periodo confuso che seguì al conflitto, anche lui pensò che Mussolini potesse riportare la pace sociale per poi essere messo fuori gioco dalla democrazia parlamentare. Come sappiamo accadde proprio il contrario: a essere messa fuori gioco fu la democrazia.
Croce dunque inizialmente si illuse, come tanti. Si risvegliò presto con le prime leggi liberticide del ’24-’25 e da quel momento maturò quell’antifascismo che poi si dichiarerà come una vera e propria guerra ideologica a Mussolini alla fine degli anni Venti. Un antifascismo quello di Croce che divenne una leggenda per coerenza, resistenza, inflessibilità e coraggio.
L’altra grande crisi contingente di cui il filosofo politico Croce fu protagonista fu quella del secondo dopoguerra. Si potrebbe dire che dal ’43 al ’45 Croce fu il protagonista principale della vita politica dell’Italia liberata, il primo interlocutore delle forze alleate nella costituzione dei governi provvisori e nel ripristino della legalità. Ministro del governo Badoglio e poi di quello Bonomi, fu uno dei grandi Padri della Costituzione e poi senatore di diritto nella neonata Repubblica. Ma via via che l’emergenza si andava allentando, per lui che si ostinava a seguire sempre e soltanto la propria coscienza, crebbero le difficoltà di rapporto con i partiti che ne approfittarono per emarginarlo.
Gli ultimi anni della vita di Croce furono amari: dopo tutto ciò che aveva dato al Paese sembrava essere diventato un peso. Tanti giovani antifascisti che si erano nutriti dei suoi libri non vollero più riconoscerlo come maestro e anzi, in quanto liberale, lo individuarono come nemico.
Il suo rifugio restavano gli amatissimi studi. Ma l’amarezza non poteva essere cancellata. “Mi pare – scriveva già nel ’43-’44 – di aver fallito finora ogni mia azione politica e mi torna il dubbio circa le mie attitudini”. Eppure ogni qual volta l’Italia lo aveva chiamato egli aveva risposto a quello che per lui era sempre il ‘dovere prossimo’: il dovere immediato, più vicino, a cui è moralmente impossibile rifiutarsi.
La crisi dei partiti che seguì alla guerra del ‘15-’18 insegnò a Croce a diffidare degli uomini della provvidenza. La crisi del secondo dopoguerra gli fece conoscere, ormai anziano e isolato, quel deleterio partitismo capace, per avidità di potere, di relegare nell’oscurità i migliori uomini del Paese.