Fenoglio: i veleni che lo uccisero 50 anni fa

Cronaca

22 febbraio 2013
Morì che non aveva ancora compiuto quarantuno anni. Era il 18 febbraio 1963.
Beppe Fenoglio era nato infatti il 1° marzo del 1922 ad Alba, nelle Langhe, la terra entro cui si svolge tutta la sua avventura letteraria e umana e che nelle sue pagine si dilata a spazio epico, dove l’umanità esplica il male e il bene nella loro assolutezza.
La sua vita, la sua morte, potrebbero essere considerate un lento avvelenamento di cui era consapevole almeno in parte, a cui non si è mai voluto veramente sottrarre se non alla nascita della sua unica figlia Margherita nel 1961. Troppo tardi: l’amore per Margherita non poteva antidotare i veleni che di lì a poco lo avrebbero ucciso.
Il fumo è certamente il veleno più concreto. Quello che depositò nei suoi bronchi il tumore assassino. Cinquanta, sessanta sigarette al giorno, forse più, consumate con avidità fin da ragazzino.
Il fumo era il veleno concreto che scatenava le furiose liti con la madre, ma connesso in modo viscerale allo scrivere, come ha raccontato la sorella di Beppe, Marisa: .
Anche la madre fu probabilmente un veleno per Beppe Fenoglio. Certo, come tutte le madri voleva solo il bene del figlio, ma la sua avversione per la scrittura lo tormentò ferocemente e certamente lo condizionò. Fu per accontentare la madre che, a 25 anni, accettò l’impiego in un’azienda vinicola dopo battaglie sfiancanti contro l’indomita prepotenza materna e contro un destino ‘borghese’ che non poteva immaginare come suo.
Non dopo le vicende della guerra e della Resistenza. Richiamato alle armi nel ’43, dopo l’8 settembre si ‘imboscò’ ma resistette poco. Nel gennaio ’44 si unì alle brigate partigiane comuniste. Non riuscì a riconoscersi in quelle formazioni, passò con i badogliani. Partecipò a molte battaglie nelle Langhe e alle gloriose giornate della ‘Repubblica partigiana di Alba’.
Un’esperienza che segna quasi tutta la sua opera e che è alla base della sua filosofia esistenziale.
Ma se quei fatti poterono essere sublimati con la letteratura, altri gli si annidarono dentro senza difesa. Veleni a fiotti, per esempio, vennero dalle case editrici e dagli ‘editor’ – prestigiosi intellettuali come si usava nel primo dopoguerra – che innalzavano e affossavano i giovani e meno giovani talenti dall’alto dei loro altari di chierici ideologizzati.
“Il partigiano Johnny”, il capolavoro incompiuto di Beppe Fenoglio uscì cinque anni dopo la sua morte. Criticatissimo perché osava dire la verità: definiva “guerra civile” quella che aveva visto fascisti e antifascisti l’un contro l’altro armati. E uscì in una versione che di sicuro non era quella dell’autore. Sì può obiettare che Fenoglio non arrivò a stenderne una definitiva e certamente su ciò influì la sua esasperata necessità di riscrivere anche decine di volte la stessa pagina. Ma molto influirono i ‘consigli’, le pressioni, le interferenze e poi le manipolazioni di quelli che pur avendo riconosciuto il suo talento, pensavano di doverlo indirizzare.
Prima del ‘partigiano Johnny’, Fenoglio aveva già fatto incetta di veleni provenienti dal mondo editoriale e da quell’intelligentia di sinistra che faceva il bello e il cattivo tempo nella cultura italiana del secondo dopoguerra.
Introdotto nella cupola Einaudi da Italo Calvino, fu sollecitato da Elio Vittorini (che di lì a pochi anni rifiuterà come ‘vecchiotto’ e ‘squilibrato’ “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa!) a riscrivere il romanzo “La paga del sabato”. Fenoglio ci provò ma lo abbandonò e accettò di mettere insieme un libro di racconti che verrà pubblicato col titolo “I ventitrè giorni della città di Alba” (1952) per il quale il ‘nume’ Vittorini approntò un ambiguo risvolto di copertina. Ambiguità che Vittorini abbandona del tutto quando Einaudi pubblica il libro successivo di Fenoglio, “La malora” (1954). Sempre nel risvolto di copertina (che dovrebbe invogliare a comprare il libro) Vittorini metteva in guardia il lettore dagli scrittori “dal piglio moderno e dalla lingua facile”, dai “provincialismi del naturalismo” e da coloro che si esprimono “a furia di afrodisiaci dialetti”.
Fenoglio come è comprensibile se n’ebbe a male, volle cambiare editore ma non gli andò meglio. Nel ’59 pubblicò con Garzanti “Primavera di bellezza”. La scrittrice Anna Banti che lo stimava molto volle presentarlo al Premio Strega ma ne uscì una querelle con la stessa Garzanti che presentava invece “Ragazzi di vita” di Pasolini. Quell’anno vinse – guarda un po’ – “Il Gattopardo”, pubblicato postumo da Feltrinelli. Pasolini prese in odio lo scrittore delle Langhe perché non si era ritirato dal premio e al suo cospetto. Un odio che coltivò a lungo è che rese pubblico con una ferocissima stroncatura di Fenoglio e dell’intera sua opera nell’occasione quanto mai opportuna del decennale della morte.
Ma prima di morire Fenoglio avrebbe dovuto sorbirsi altri veleni. Nel ’61, stimolato da Calvino a pubblicare una nuova raccolta di racconti con Einaudi, si mise d’impegno al lavoro salvo poi vedere tutto vanificato da una lite tra la stessa Einaudi e la Garzanti che rivendicava la proprietà sulla nuova produzione. La pubblicazione fu sospesa.
A quel punto, nonostante la nascita della figlia, Fenoglio si arrese ai veleni e alla malattia. Prima fece in tempo a ricevere il premio Alpi Apuane: nel ’62 già minato fortemente accettò di recarsi a Pasquilio, frazione di Montignoso, per riceverlo. Scrisse quel giorno: “Oggi ho ricevuto il mio primo applauso. Per un letterato vuol dire molto”. Gioia breve. Fu proprio a Pasquilio che le sue condizioni peggiorarono, ebbe un’emottisi, fu riaccompagnato d’urgenza a Alba. Affrontò la malattia con un coraggio che dice molto del suo carattere e del suo modo di intendere la vita. E la morte. Lui schivo, solitario, timido fino alla balbuzie, geniale e incompreso tessitore di lingue – l’inglese, prima ancora dell’italiano, ma anche il francese, il latino, il greco antico, il dialetto – e di storie, se ne andò da eroe anti-eroe, quello che era sempre stato.
Rifiutò la cobaltoterapia. Non potendo più parlare scrisse con lucidità e a ciglio asciutto le ultime volontà e un biglietto per la sua bambina:
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