Verba volant, scripta manent

Curiosità

5 novembre 2013
Da piccola, alle medie, avevo un’amica di penna. Era francese, si chiamava Elodie. Scriveva con la stilografica blu sui fogli a protocollo – quelli piccoli – a righe. Il francobollo era giallo, non ricordo cosa raffigurasse. Io le scrivevo in francese, lei rispondeva in italiano: i nominativi ce li aveva dati la professoressa, erano tutti ragazzi di una scuola vicino a Lille. Mi piaceva leggere le sue lettere: mi facevano sentire parte del mondo. Sognavo di andarla a trovare. Ho sempre avuto una passione per la Francia, la Francia tutta. In realtà, non sono ci siamo mai conosciute di persona, e con gli anni la corrispondenza s’è esaurita. Le penso spesso, ogni volta mi riprometto di recuperare l’indirizzo e ogni volta che torno a casa me ne dimentico. Dovrei riaprire una delle mie scatole dei ricordi, ma sarebbe un po’ come scoperchiare il vaso di Pandora. Evito.

Poco più grande, la corrispondenza dal mare. Lettere infinite, scritte in penna nera su fogli da stampante, piegati in quattro. Rispondevo sempre in ritardo, ma rispondevo. Dopo qualche anno, il calo fisiologico fino alla fine del carteggio. Nemmeno il telefono ha supplito all’assenza di comunicazione. Il fascino della posta era imbattibile, soprattutto garantiva una meravigliosa attesa.

Per ogni compleanno, anniversario, evento – delle persone a me più care –  scrivo biglietti e lettere. Mi piace proprio. Con le mie cinque gambe abbiamo preso l’abitudine di costruire biglietti meravigliosamente artigianali: l’augurio è in rima, e arriva dopo avere ripercorso parti delle rispettive vite. Rima baciata, la maggior parte delle volte. Sono esilaranti e commoventi. Una di noi è una vera specialista a riguardo: a lei l’onore e l’onere di scrivere i papiri per le varie lauree.

Amo i post-it improvvisati. Durante l’università scarabocchiavo lì i miei pensieri. Come se, stando nella mia testa, pesassero meno. Sulla carta, diventavano veri e mi restavano da monito. Appunti, speranze, to do. Li ho buttati solo quando, in un modo o nell’altro, si svuotavano di significato o diventavano anacronistici. Al master, comunicavo anche attraverso loro con la mia coinquilina: spesso gli orari non coincidevano, ed era più bello leggere un messaggino scritto a mano appena rientrati piuttosto che aprire la bustina sul telefono.

A un regalo, preferisco il biglietto. Davvero. Ovviamente sono felice di scartarlo, ma leggere qualcosa che mi resterà non ha prezzo.

Scrivere, scrivere su carta e non su Facebook, non su WhatsApp, non su Twitter. Scrivere perché serve del tempo. Serve per rileggere il testo e per correggere i refusi. Serve per tirare una riga sulle parole sbagliate. Serve fermarsi un attimo, cercare un foglio e una penna. Serve per dedicare davvero un po’ di sé a sé o ai vari destinatari. Non è questione di scrittura con funzione catartica, non vale per tutti. È questione di regalare – o regalarsi – davvero un momento che resterà per sempre. Magari chiuso in un cassetto, ma rileggendolo racconterà un po’ di noi. Racconterà un po’ di noi la carta stropicciata, magari per rabbia. Racconteranno un po’ di noi i cerchiolini opachi delle lacrime sul foglio. Racconterà un po’ di noi la carta scelta, sia essa una carta da lettera blu di Lupo Alberto o una tovaglia a fiori estiva su cui abbiamo raccontato i migliori anni della nostra vita. Fino a oggi.
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