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Ciò che resta del mondo

di Monica Peruzzi

Rajabazar, dove finiscono i rifiuti di Calcutta

Cultura

2 febbraio 2013
Foto di Ugo Panella
In India non esistono cassonetti per l'immondizia. Tantomeno cestini per le strade.
Così ci si ritrova a girare con in mano la bottiglietta d'acqua ormai vuota, o la carta di giornale in cui è stato messo il samosa che ci siamo appena mangiati, per minuti e minuti, infastiditi dall'idea di gettare tutto per terra e non pensarci più.
Alla fine, esausti, si cede a questo gesto che, per fortuna, è sempre meno abituale in tutto l'Occidente, confortati anche al fatto che le strade non sono esattamente pulite come in Svizzera. Ma il dubbio viene: se tutti fanno così, se tutti i rifiuti, di qualsiasi natura, finiscono per terra, come fanno le città a non straboccare di monnezza? Per rispondere basta seguire i rifiuti.
Le bottigliette d'acqua come quella che avevo mio malgrado gettato, vengono raccolte dagli 'straccivendoli' in enormi sacchi di plastica e caricate prima su biciclette o ciclo risciò e poi sui camion. Così succede per ogni tipo di rifiuto: carta, plastica, vetro, lattine.
Decine di mani frugano anche fra i rifiuti organici, in cerca di scarti di cibo ancora buoni da mangiare. Chi pulisce le strade sono i poveri, quei 700milioni di anime che, in India, vivono al di sotto della soglia di povertà, con meno di un euro al giorno, e che grazie a questo piccolo business riescono a garantire almeno un pasto alla famiglia, ovviamente nella totale inosservanza delle regole e, come spesso avviene, nella totale ignoranza dei rischi potenziali per l'ambiente e la salute cui si espone.
L'immondizia di Calcutta, finisce a Rajabazar, lo slum in cui i rifiuti vengono separati e preparati per essere rivenduti a quelli che poi li trasformeranno in nuove bottigliette, nuovi contenitori. I super-ricchi proprietari d'azienda, quel 10% della popolazione che però detiene il 33% della ricchezza indiana, secondo gli ultimi dati diffusi dall'Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Lo slum di Rajabazar è affascinante e spaventoso. Una lunga strada asfaltata ai margini della quale sorgono baracche sommerse da enormi imballaggi colmi di rifiuti. Bambini mezzi nudi e scalzi che giocano ai bordi di un canale gonfio di escrementi umani delle latrine appollaiate su traballanti palafitte e di tutta quella piccola plastica che non può essere riciclata e che quindi viene gettata in acqua, o magari bruciata per accendere i fuochi, scaldarsi la sera e cucinare. La puzza di diossina è penetrante. Irrita gli occhi e stringe la gola. L'acqua corrente non arriva. Tantomeno l'elettricità.
Eppure a ridosso di queste baracche ci sono le case dell'emergente borghesia, una classe in ascesa, in India, proprio come il Pil del Paese, ma che sembra voltarsi dall'altra parte, per non vedere. Non vuole vedere che l'espansione delle città, le sta portando al collasso. Secondo l'ultimo censimento del 2011, nelle aree urbane vivono 340 milioni di persone, ma entro il 2030 saranno il doppio e il rischio che implodano sotto il peso dei rifiuti e dei liquami delle fogne a cielo aperto, è concreto. Anche perché questi numeri non rappresentano che una piccola parte del problema: l'anagrafe non esiste e una città come Calcutta, che ufficialmente conta 4 milioni e mezzo di persone, pare che in realtà ne ospiti 20 milioni.
Carenza idrica, scarichi abusivi, smaltimento indiscriminato, hanno inquinato le falde acquifere, fiumi e laghi, non solo qui, ma in tutta l'India.
Per capire la gravità del problema, basta spingersi fin sulla riva del Gange, la grande madre Ganga, il fiume sacro. Bere l'acqua del Gange, secondo l'induismo, farà sì che dopo l'ultimo respiro, l'anima salirà al cielo. E così i rituali di purificazione si ripetono ogni giorno, all'alba, da millenni, e ogni giorno le ceneri di migliaia di cadaveri (e anche quello che il fuoco non è riuscito a bruciare), viene lasciato alla corrente, perché arrivi fino all'Oceano.
2500 chilometri di corsa, dall'Himalaya al Golfo del Bengala, dove sorge Calcutta, in cui fabbriche, città, villaggi, scaricano in quell'acqua sacra e nelle migliaia di affluenti, qualsiasi cosa.
Forse, però, quell'acqua è sacra davvero. A guardare le condizioni igieniche del posto in cui mi trovo, infatti, non posso non chiedermi come sia possibile che non siano perennemente registrate epidemie di colera.
Nell'incertezza, comunque, preferisco non immergermi.
www.pangeaonlus.org[caption id="attachment_49" align="alignnone" width="300"]Rajabazar, Calcutta Rajabazar, Calcutta[/caption]
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