Anche il piccolo Connecticut dice no alla pena di morte. La grande California quasi certamente lo dirà a novembre. La marcia contro la pena capitale in Usa procede lenta ma irreversibile. Sono già 16 gli stati americani che l’hanno abolita o sospesa trasformando in ergastolo senza possibilità di uscire sulla parola la barbara e cinica esecuzione con l’iniezione letale praticata dal boia-infermiere. Il dibattito e il tormento di una nazione purtroppo ancora imbevuta nel mito dei pistoleri, non verrà aiutato però dall’anno elettorale. Si tratta di un tema radioattivo per il voto di novembre.
Obama e Romney hanno posizioni molto diverse ma anche se il presidente dice che «la pena capitale non è un deterrente contro il crimine » non vuole scoprire il fianco alla destra e aggiunge che, chi si è macchiato di atti particolarmente orribili è giustificato che paghi con la vita. Si tratta di una posizione al fondo ambigua anche se intensifica l’obbligatorietà del test del Dna e la registrazione completa di un’eventuale confessione prima della condanna a morte.
Si dirà che sono dettagli minimi, ma in un paese dove decine di persone sono state giustiziate ingiustamente, condannate da giurie superficiali o pilotate da stereotipi e preconcetti, anche queste prove obbligatorie finiranno per avere un peso. Anche all’interno delle Nazioni Unite cresce il numero dei paesi favorevoli a una abolizione permanente o a una moratoria indefinita, e questo è un segnale incoraggiante.
Deprimente e in controtendenza invece è la crescita delle esecuzioni in paesi come Cina e Iran insensibili all’appello dell’Onu per il rispetto dei diritti umani. Non aiuta nemmeno scoprire che anche gli estensori delle nuove «costituzioni democratiche» per i paesi in guerra come Iraq e Afghanistan non l’anno affatto esclusa dalle loro raccomandazioni.
Non è solo una battaglia contro la barbarie, è una battaglia culturale. Certo le abolizioni negli stati di New York, New Jersey, New Mexico, Illinois e Connecticut negli ultimi 5 anni sono un fattore indicativo che testimonia lo sviluppo di un dibattito difficile ma fruttifero. L’appello del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon a fare di più si ripete costantemente. Anche Barack Obama sarà sicuramente in grado di esprimersi con un tono più alto di voce se il voto di novembre andrà a suo favore. Per ora però il presidente sembra prigioniero di un prudente silenzio.