Dire del giovane Trayvon Martin, ucciso da un «vigilante» in Florida, che «poteva essere mio figlio» è stato da parte di Obama un gesto solidale da genitore e comandante in capo. Ma quando si tratta di confrontarsi col razzismo strisciante che in America, dopo decenni dall’abolizione ufficiale della segregazione, non solo non è mai scomparso ma si è insinuato sottopelle, servono simboli più che slogan esplosivi.
Ecco allora che il primo presidente di colore degli Usa, attento al «bagaglio pesante» che la popolazione afroamericana si porta ancora dietro soprattutto al Sud, approfitta dei cinquanta anni dall’uscita nelle sale per presentare un capolavoro di Hollywood come «Il buio oltre la siepe», per mostrarne la preoccupante attualità. Gregory Peck è lo schivo avvocato che in Alabama, negli anni della Depressione, difende un uomo di colore ingiustamente accusato di avere violentato una donna bianca. Il caso della Florida, mezzo secolo dopo, ripropone il pregiudizio, e la condanna a morte di un ragazzo di fatto giustiziato per la sua apparenza: Trayvon portava una felpa col cappuccio in testa, comunissima tra i ragazzi anche bianchi della sua età, ma il colore della pelle ne ha fatto un immediato sospetto e un pericolo da eliminare.
L’America non ha mai risolto il problema della integrazione razziale. In molti stati americani il messaggio di uguaglianza non è ancora stato assorbito. Nemmeno se è appena stato inaugurato un enorme monumento a Martin Luther King.
Vincendo l’Oscar per la sua interpretazione, Gregory Peck ha dato a «Il buio oltre la siepe» un posto nella storia del cinema. Vedendolo oggi come specchio del Paese dopo la tragedia della Florida, l’America scopre che il buio esiste ancora. Nel cinema privato della Casa Bianca, Barack ha invitato gli studenti di una scuola di Washington insieme a Veronique Peck, la 96enne vedova di Gregory, e Badham Wilt, l’attrice che nel film interpretava Scout, la figlia dell’avvocato Finch. Generazioni diverse testimoni di un problema che rimane.