Rapportarsi con la Cina, vademecum per i giovani e le imprese

Cultura

6 novembre 2012
A parlare due esperti intervistati nei mesi scorsi, ovvero l' amministratore delegato e direttore generale di Esaote Italia, Fabrizio Landi, e il direttore dell'Istituto Confucio di Pisa, Nicola Bellini.

 

DIALOGO, preparazione e conoscenza, culturale e linguistica. Sono questi gli elementi per aprire un vero ponte di sviluppo tra Toscana e Cina, per i piccoli-medi imprenditori affacciarsi su un nuovo mercato, e per i giovani crearsi un'ulteriore opportunità di lavoro. «La conoscenza della lingua e della cultura cinese è molto importante nella fase di start-up di un’impresa in Cina e un valore aggiunto per i giovani che si interfacciano con il mondo lavorativo» spiega Fabrizio Landi, amministratore delegato e direttore generale di Esaote, nonché delegato per la Toscana della Fondazione Italia-Cina. Multinazionale del settore delle tecnologie medicali, Esaote, che ha un centro di ricerca e sviluppo a Firenze, è una delle prime realtà toscane ad essere andate nel Dragone Rosso: nel ‘92 come distributori, per poi diffondersi con sedi e fabbriche a Hong Kong e Shenzhen, ed avere ad oggi oltre 200 dipendenti cinesi. Se l’inglese è oramai considerato patente curriculare, conditio sine qua non per il nuovo management dovrà essere non solo la conoscenza del dialetto pechinese (lingua ufficiale della Cina, meglio conosciuta con la denominazione di ''mandarino''), ma anche, e soprattutto, della cultura cinese.

«Dopo aver sviluppato un management locale, con persone che mandiamo per periodi più o meno lunghi, si utilizza principalmente l’inglese»  prosegue Landi citando il caso del responsabile d’area a Hong Kong da più di quindici anni, i cui figli sono i soli a parlare il mandarino. «Il tema della lingua —sottolinea— è importante nella fase iniziale, nei rapporti istituzionali, per la traduzione di documenti da firmare». Diversa è la situazione per i ventenni e trentenni di oggi e per le nuove generazioni.

«Gestire un team di tecnici e impiegati cinesi non è come gestirne uno italiano. Sia per una questione di mentalità che per differenti regole lavorative. In questo senso abbiamo sostituto manager italiani con locali e guardiamo favorevolmente ai cinesi nati in Italia di seconda e terza generazione». Da qui l’esigenza di «lavorare su ponte culturale e interscambi». «Nel 2010 —continua—, 220mila studenti cinesi sono venuti in Europa, di questi 25mila in Italia e solo un migliaio in Toscana. Troppo pochi, come è esiguo il numero di studenti connazionali che vanno in Cina». «Sebbene il management in madrepatria sia al momento completo, ci farebbe piacere assumere un giovane con determinate competenze tecniche e la conoscenza del mandarino, faciliterebbe i rapporti con i colleghi in Cina. Il futuro mercato è là».

Una consapevolezza che sembra crescere tra le stesse famiglie, come conferma il direttore dell’Istituto Confucio di Pisa, professore Nicola Bellini. L’Istituto, promosso dal Ministero cinese dell’Istruzione,  è il risultato di un accordo di collaborazione tra la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e l’Università di Chongqing. La scuola si interessa della collaborazione scientifica, culturale e accademica tra le due istituzioni attraverso seminari e corsi anche all’Università di Pisa, alla Scuola Normale Superiore e in numerosi licei. La domanda della conoscenza della lingua cinese, in particolare negli ultimi due anni, ha visto una crescita esponenziale ed «è rappresentata dalle richieste delle famiglie, non viene solo dal mondo dell’economia —spiega il direttore Bellini —. Si sta aprendo inoltre una nuova frontiera di scambio in cui sono gli stessi cinesi a voler imparare l’italiano». «Il passaggio chiave, che molti sembrano non aver capito, è che la Cina dal punto di visto economico, industriale, scientifico è un Paese che non aspira a diventare un Paese anglosassone, sebbene vi sia una élite colta e giovane che parla l’inglese —aggiunge—. Noi ne siamo un esempio: operiamo in rete con altri 369 Istituti nel mondo e vi è l’intenzione di arrivare a 500 entro il 2015. E’ uno sforzo di carattere finanziario che testimonia questa determinazione nel far diventare il cinese una delle grande lingue internazionali».

«In Toscana abbiamo casi di eccellenza, ma si può fare di più; ci sono grandi aspettative, ma non ci stiamo affatto preparando —commenta ancora—. Molte piccole-medie imprese sono all’Abc e hanno una strumentazione inadeguata per affrontare una realtà complessa quale è la Cina e che può spaventare. L’approccio sbagliato è quello di pensare di poter vendere subito ai 95 milioni di ricchi cinesi. E’ un problema di attitudine, che va ben al di là del deficit linguistico». «Oltre lo shopping in via Tornabuoni, ci sono partite più importanti da giocare e alcune di queste riguardano il turismo. Quando arrivano turisti e delegazioni cinesi chiedono, e non trovano quasi mai, il boiler di acqua calda. Così come altri requisiti ‘banali’. Bere acqua tiepida è nella cultura cinese condizione vitale. Un giovane preparato eviterebbe sicuramente di compiere errori di questa portata».

Tra gli scivoloni: dare la camera con il numero ‘4’ perché legato alla morte, meglio scegliere il numero ‘8’ perché considerato fortunato. Ancora, evitiamo di regalare orologi, perché associati all’inesorabile scorrere del tempo e al funerale. Oppure il formaggio, la carne cruda, dal prosciutto ai salumi, o il riso al dente perché non concepiti. Seguendo queste accortezze e cortesie, o più semplicemente seguendo il ''diktat'' dell'accoglienza, ben si predispone il nostro interlocutore, oltre che dare una mano al dialogo interculturale. «Studiare il cinese richiede sicuramente un investimento serio e la disponibilità di mettersi in gioco, anche con viaggi in Cina  —conclude—. Le facoltà di lingue, con tutto il rispetto, troppo spesso coltivano ragazzi bravissimi ma con un logica quasi esclusivamente letteraria, che è invece bene approfondire nel caso se ne abbia la vocazione e si voglia fare ricerca. Lo strumento linguistico, unito ad altre competenze, rappresenta certamente una marcia in più».

 
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