‘Il Manifesto’, quotidiano comunista e di governo

Cultura

13 febbraio 2012
UN PAESE che perde un giornale è come un bosco che perde un albero: si impoverisce. Il pluralismo è fatto di più voci, piacciano o meno; poche voci sono l’espressione del conformismo. Ecco perché preoccupa la possibilità che ‘il Manifesto’, messo in liquidazione coatta amministrativa dal ministero per lo Sviluppo economico, scompaia dalle edicole. Il quotidiano che ancora si definisce comunista nonostante la scomparsa del comunismo, fu fondato negli anni Settanta da Pintor, Rossanda, Castellina, Parlato, Magri (gli eretici del Pci), e per 40 anni ha aiutato a ragionare anche in tempi di crociate. Ma oggi non sembra esserci più spazio per questa testata in crisi e per la cooperativa che lo edita. Sono venuti meno i fondi pubblici per l’editoria, e così la pubblicità e i lettori. «E’ un delitto politico», sostengono i colleghi del ‘Manifesto’, aggiungendo «dove non è riuscito Berlusconi, ecco che ci riesce Monti». Ferme restando le premesse di cui sopra, dissentiamo. Il giornale è vittima dei tempi - come lo fu ‘Il Mondo’ di Pannunzio e di Bendetti, testata assai cara a chi scrive - in cui il tramonto della sinistra si somma al trionfo delle tecnologie, del qualunquismo, del bla bla. E l’idea che un giornale possa vivere solo grazie all’elemosina del governo di turno (come è stato per l’Avanti di Lavitola e per tante altre testate) mal si concilia con la libertà di stampa e con quella del mercato. Speriamo sia l’ennesima sottoscrizione dei lettori a salvare il quotidiano, altrimenti è meglio cadere a testa alta, sventolando la propria alterità. Come gli eretici.
(pubblicato su Qn-Carlino-Nazione-giorno dell'11 febbraio 2012)
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