POCO PRIMA del vertice a Palazzo Chigi con Monti, Bersani e Casini, il segretario del Pdl Angelino Alfano ha affidato a Facebook le sue intenzioni. Il leader dell’Udc, appena dentro, ha invece postato su Twitter una foto dei partecipanti con tanto di commentino: «Siamo tutti qui. Nessuna defezione». Non sono certo i primi politici approdati sui social media, ma sono di certo i primi a usarli per commentare in diretta un summit. Poche parole, pensieri grezzi piegati alla dittatura delle battute limitate. La complessità della politica e della mediazione viene ridotta (per l’opinione pubblica) a un cinguettio (tweet), emesso per certificare l’esistenza internettiana, l’appartenenza a una comunity in cui non sono ammessi mediatori. Da cogito ergo sum a twitto ergo sum. Così i politici, reporter di se stessi, pensano di conquistare gli elettori, di rifarsi una reputazione, di mostrarsi popolari, accessibili, condottieri in pectore del ‘popolo della Rete’. Il dubbio che non sia questa la via migliore, ce lo siamo timidamente tenuti in testa, fino a quando non abbiamo letto un’intervista a Jonathan Franzen sull’inserto letterario del Corriere della Sera. Dice il 52enne scrittore americano: «Detesto Facebook. (...) Twitter è la versione stupida di Facebook. (...) Il triste scenario di un’umanità tecno-narcotizzata, che si sente viva solo perché consuma senza interruzione live news che fra tre minuti con conteranno più niente, mi fa credere che si tratti di una droga malvagia e conformista». Grazie Franzen, a nome dell’uncool people (il popolo dei fuori moda).
(pubblicato su Qn-Carlino-Nazione-Giorno il 17 marzo 2012)