<Non ero mica un comandante, sa? Solo un partigianino», quasi si schermisce Francesco Berti Arnoaldi Veli, 86 anni portati splendidamente, accarezzando i ricordi di una vita che ora sono finiti in un film. Fotogrammi e ideali di un diciottenne di buona famiglia che si dà alla macchia per combattere le infamie di Salò; fotogrammi e ideali di un uomo che non ha mai smesso di essere “partigiano di montagna”, un resistente. «Ormai sono uno dei rari testimoni. Se c’è qualcosa di buono da trasmettere, va trasmesso, ma senza idealizzare». Lontano dagli agguati della retorica, come sosteneva Ferruccio Parri, il “comandante Maurizio”, suo «padre spirituale».
“UN AMICO IN VIAGGIO” è il titolo del documentario di Daniele Balboni che verrà proiettato martedì nell’ambito del Biografilm. Un viaggio che da quel giugno 1944 Francesco Berti Arnoaldi Veli non ha più interrotto, rifiutando di rintanarsi nel nobile palazzo di famiglia a Bologna o nei successi della professione di avvocato, in uno studio attraversato da 210 anni di storia e sei generazioni. Cominciò nella chiesina di Ronchidos, sull’Appennino tra Bologna e Modena, dove si ritrovarono otto ragazzi renitenti alla leva; proseguì tra Gaggio Montano e Fanano, dove la brigata “Giustizia e libertà” mise insieme cento uomini; fece tappa a Bologna dove il partigiano, nome di battaglia Checco, fu tra i primi a entrare il 21 aprile ’45, giorno della liberazione. «Abbiamo ballato una sola estate, - dice sorridendo - ma in quella stagione ho cambiato pelle, come le bisce».
Gli americani, lassù a Gaggio, li vide arrivare nell’ottobre ’44. E lì fermarsi. Proprio quando i tedeschi già sembravano in ritirata dalla linea Gotica, Eisenhower aveva dato la precedenza alla Normandia, e così Checco il partigianino trascorse l’inverno a combattere e ad amministrare per conto del Cln le terre liberate. «Fu un’avventura collettiva, bellissima».
SCESO IN PIANURA in primavera, cacciati i tedeschi, sentì farsi concreto quel futuro per il quale aveva combattuto. Ma fu tra i primi ad avvertire tra la gente, tra i politici «il torbido desiderio di non ricordare, di confondere le carte, di appiattire i valori», come scrisse anni dopo ad Alessandro Galante Garrone. Da una parte l’Uomo qualunque di Giannini, dall’altra il Pci di Togliatti. Il disincanto venne presto per Berti Arnoaldi e il suo Partito d’Azione. Da una parte «il qualunquismo, baco mai domo», dall’altra il comunismo che con l’amnistia togliattiana annullava gli spiriti radicali e illuministi venuti dalla Resistenza. Poi il conservatorismo democristiano fece il resto. Dov’era finito quel «misterioso e miracoloso moto di popolo», di cui aveva parlato Calamandrei? Ma poiché «la cosa peggiore è tacere», l’avvocato continuò a far parlare il partigiano, e il partigiano continuò a porgere all’avvocato la rete di idealità. “Cantatine partigiane”, “Con i miei compagni devo restare”, i suoi libri che trasmettono quel mondo. E poi centinaia di articoli, dopo il primo scritto a diciotto anni su «Patrioti», giornale della brigata, “direttore” e factotum un giovane Enzo Biagi, cui “Checco” è rimasto legato per sempre («sulla bara gli ho messo il distintivo di Giustizia e libertà»). Infine “Viaggio con l’amico”, piccolo gioiello della memoria, commovente ricerca delle ultime tracce di Giuliano Benassi, il compagno del liceo Galvani, ucciso in un campo di concentramento. E poi l’ordito mai spezzato dei compagni di strada, da Ferruccio Parri a Toni Giuriolo, da Piero Calamandrei a Tristano Codignola, da Cesare Gnudi a Giorgio Morandi a Giuseppe Alberigo, con cui in momenti diversi sognò un’Italia migliore. Il laico rende omaggio anche a don Mazzolari, don Milani, padre Balducci, Dossetti, alla loro etica.
MA POICHÉ la Resistenza «si vive oggi e domani, non ieri», poiché «tutti i giorni si è chiamati a una scelta» - come spiega ogni anno alle centinaia di studenti che lo invitano a parlare - Berti Arnoaldi, il Gran borghese di cultura liberale, ex presidente della Fondazione Campo Fossoli (la nostra rampa della morte verso i lager tedeschi), presidente onorario della Federazione italiana associazioni partigiane, non ha smesso di resistere all’Italia peggiore. Antigone è il suo punto di riferimento. «Sì, ribellarsi in certi casi è un dovere. Anche oggi. Ribellarsi alla facilità, perché la democrazia è fatta di difficoltà. Attenti ai ciarlatani che vogliono rendere tutto facile, attenti ai Masaniello che incantano il popolo che si lascia incantare».
“Checco” cita Cesare Garboli che negli anni Settanta non si sentiva cittadino in patria, denuncia le nuove pavidità. Ma sempre prevale lo spirito del resistente: «La giustizia è la madre, non la figlia, della libertà. Non bisogna disperare». E accomiatandosi ride con gli occhi, come quando «i partigiani di montagna si incontrarono con i partigiani di città».
(pubblicato su Qn-Carlino-Nazione-Giorno l'11 giugno 2012)