ERANO gli inizi degli Anni ‘60 quando Mario Giacomelli iniziò a ‘fermare’ sulla pellicola della Comet Bencini i pretini del Seminario di Senigallia, la sua città. Allora il suo nome circolava solo tra pochi appassionati di fotografia, per i più era semplicemente il proprietario della ‘Tipografia Marchigiana’. Ma di lì a poco, nel ’63, quando il MoMa di New York acquisì la serie delle immagini di Scanno, il nome di Giacomelli entrò nella Storia della fotografia, homo novus che in quell’arte si accompagnò ai più grandi del Novecento. Sono folate di poesia, pennellate oniriche, lampi di raffinatezza che si imprimono sul realismo. I suoi scatti sono un racconto che attraversa paesi, campagne, ospizi, genti, memorie.
Ma sono soprattutto i suoi pretini a irrompere nell’immaginario collettivo, svolazzanti, sorridenti, festanti. Come poche altre cose, quelle immagini testimoniano la Chiesa giovannea, le attese e le speranze di un’epoca nel solco del Concilio Vaticano II. E per quella serie Giacomelli scelse come titolo un verso di padre Turoldo: ‘‘Io non ho mani che mi accarezzino il viso’’. Ma che ne è stato di quei pretini, quanti di loro hanno smesso di gioire o di credere in una Chiesa più vicina a chi crede? Anche loro pensano, come il card. Ruini, che cominciò con il Concilio la crisi delle vocazioni? Le domande affiorano - mentre al Museo di Roma in Trastevere espongono 90 scatti di Giacomelli - ora che al fruscio dei gioiosi seminaristi di Senigallia è subentrato un feroce smarrimento. Ora che, parole del cardinal Martini, «la Chiesa è in ritardo di 200 anni».
(pubblicato su Qn-Carlino-Nazione-Giorno il 15 settembre 2012)