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Giovani per davvero: Tommaso Meozzi


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Firenze, 25 ottobre 2012 – Del promettente vivaio di poesia costituito da giovani studenti, neolaureati e dottorandi dell’Ateneo fiorentino, in particolare della Facoltà di Lettere, di cui abbiamo parlato in un precedente post fa sicuramente parte Tommaso Meozzi, classe 1984.

Ricordo il mio primo incontro con Meozzi-poeta, già conosciuto come studente che con me aveva sostenuto brillantemente un esame con tanto di relazione scritta incentrata su un confronto in chiave linguistica tra la narrativa di Gadda e quella di Pasolini, quando durante un ricevimento del mercoledì  di cinque anni fa mi si rivelò come l’autore de La scatola magica, affidando alla mia lettura quei versi inediti tra i quali scelsi e commentai i testi che mi parevano i più risolti e personali: già rappresentativi di una vena, di una solo incipiente ma già delineata e ravvisabile originalità espressiva.

Ricordo soprattutto, al di là delle selezioni di valore orientativo effettuate e delle poche notazioni annesse, che rassicurai il timido e silenzioso Meozzi sulla plausibilità del suo impegno, invitandolo a proseguire nella ricerca. Meozzi lo ha fatto, con profitto, continuando a credere nella scrittura e collezionando nel giro di qualche anno una serie di esperienze e affermazioni pubbliche allora impensabili.

Alla fine del 2009 ha pubblicato infatti sulla rivista «Bloc Notes» di Liliana Marchand-Boggia il poemetto dal titolo Viaggio alle soglie del mondo, seguito l’anno dopo dalla sua prima raccolta di poesie, La superficie del giorno, edita da Le Cariti. Ancora nel 2010 si è imposto nella sezione giovani del «Premio Lerici-Pea» diretto dalla bravissima, compianta Grazia Beverini Del Santo, e a questa vittoria hanno fatto riscontro più confidenti e frequenti apparizioni in pubblico, a Firenze, la sua città, e altrove: il reading collettivo Poeti Come/te allo storico Caffè delle Giubbe Rosse, la sua partecipazione alla Notte Bianca fiorentina del 2011, quella ad aprile di quest’anno ad un evento alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Viareggio.

E anche i pareri sulla sua poesia (oltre ai suoi sull’esercizio letterario di altri, con articoli su «La Rassegna della Letteratura Italiana» e  «Il Portolano») si sono fatti nel frattempo pubblici e variati: a partire da quello iniziale del poeta pistoiese Roberto Carifi sul mensile di Crocetti «Poesia», incentrato sul poemetto Viaggio alle soglie del mondo e su altri testi, tra cui  la raccolta allora inedita La superficie del giorno: «una raccolta piuttosto bella – secondo Carifi –, che sa guardare e incantarsi “oltre la gabbia di un cortile grigio”».

Di Tommaso Meozzi presentiamo alcuni componimenti tratti da La mia vita è un luogo che cammina. Qui, ancora all’insegna del grande tema del viaggio che tiene insieme Omero e Campana, Baudelaire e Cattafi,  l’io del poeta si fa traslata autobiografia e insieme ascolto di un’umana essenza smarrita e in cerca di se stessa, in un ideale, protratto percorso che include al suo interno tutta una lunga storia, e non solo la storia della poesia: dal giardino delle delizie anteriore alla cacciata con i suoi indelebili ricordi e suoi richiami nostalgici al disintegrato mondo d’oggi con il suo carico di brutali utilitarismi, oscuramento dei veri valori e quotidiana disumanità trionfante. Un allargato, consistente e dinamico «luogo che cammina», che nel tempo si evolve e permane, nonostante Meozzi ci assicuri, a ragione, che quel misterioso luogo in viaggio è soprattutto la sua vita.

Marco Marchi

Da La mia vita è un luogo che cammina

Parlo a te, come se tu fossi l’ultimo,
fine del mondo, somma espropriazione,
io, senza nome, a un passo dal primo singulto.
Ho visto il bimbo che piange nell’uomo fatto,
ho visto il teatro disfarsi, lasciare solo le quinte,
mentre il mare le sfiora.

Parola, tu sola ritorni, i miei giorni sono poveri,
ma tu li accogli, e io non so chi devo ringraziare.
Forse il mare? Ma il mare è muto, s’agita,
e non sentirebbe.
Forse la stele, al centro della piazza,
che fissa il dogma e la figura alla porta,
che decide chi resta, e chi far entrare.

Io sono il pellegrino di me stesso,
mi trasporto in questa città, che ha negli occhi il lucore
dell’ambra, nelle vene il cemento che cala,
senza chiedere. Certe sere è come se il pianto
avesse anima:
trascino il mio corpo fino a questa tastiera,
come se fosse la mia ultima sera,
e in fondo lo è. Con tutto ciò che ho fatto,
e non ho fatto, di me non resterà niente:
solo da qui io vedo l’eternità, la mia voglia
che brucia e si consuma, in pura luce.

Sorella

Sorella dove sei? Dove posso
ancora respirare l’odore
che le tue mani esalano?
Oltre ogni ideologia, sorella
dove posso vederti danzare
senza che tu sia mia?
E se per gioco, il mondo che gira
perscrutandosi al microscopio
e tornando sotto un vetro fioco
come il mare si prosciuga
per succhiare il suo sale
dovesse un giorno andare avanti,
senza più pianti soffocati in scodelle
politiche, se queste due lire
che mi sono rimaste in tasca
fiorissero come ginestre in una vasca
che gorgoglia in mezzo al bosco,
allora vedrò
il silicio che si scolla
dalla scatola sonora del mio computer,
saremo in due sorpresi
dal prodigio
vedendo il mondo che ancora si rigenera.

Comunicare

Ci parlammo, ognuno mettendo tre punti
esclamativi
congiunti in mezzo ai nostri occhi.
Erano una sorta di cella
e non per questo la luce era meno bella
sui nostri corpi.
Dio, tu che ci adocchi da chissà quale
infinità multimediale,
sii testimone: le due persone giocavano
a nascondino dietro l’albero
di un punto esclamativo (o due? o tre?
Ho perso il seme della ragione
chiedendomi quante volte ho sbagliato
a non urlare a perdifiato).

Striscia un corpo, un uomo, un’anima,
sulla pista scalcinata della city.
Dice semplicemente:
non uso più il punto
esclamativo che mente.
Non ha pretese, non odia, non clama,
invidia nasce
nonostante le sue ganasce tremino
all’interno del cerchio.
Invidia per chi si permette il rispetto
di porgere il silenzio senza spregio.

Mi voglio svuotare, finché non resti nella mia anima
solo una stella di mare,
quella che nessuna collezione vuole,
quella che non ha prezzo.
Non ho tromboni, suonati da giovani che sembrano
vecchi, non ho rispetti che siano falsi.
Io ho una stella di mare, la puoi baciare, e non arrossisce,
se è triste ti consola,
perché il suo pianto è la gioia senza oggetto.
Io ho il rispetto delle cose, tutte, mi fanno riverenza,
perché la mia coscienza le accoglie, ma non le trattiene.
Ed ecco: viene di parlare per figure,
oltre il codice che il costume ha deciso, oltre le brutture
dell’”oggettivo”, del “ma è chiaro”, oltre l’occaso
che si fregia di figure di plastica.
Ma cosa volete che m’importi, ora, qui,
siamo già tutti risorti:
non andate a vendere amuleti
a chi non ha segreti, se non vivi.

Tommaso Meozzi

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