Compleanno Giovanni Giudici (Le Grazie, 26 giugno 1924). ‘Casa estrema’
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Firenze, 26 giugno 2013 – Giovanni Giudici – nato a Le Grazie, Portovenere, in provincia di La Spezia, nel 1924, scomparso due anni fa nella notte tra il 23 e il 24 maggio –, resta presenza centrale della poesia italiana del secondo Novecento.
Mi piace ricordarlo, Giudici, così come lo incontrai (non solo per via cartacea, ma prima strettamente cartacea) negli anni Settanta, quando le raccolte d’annata segnalabili tra i poeti pressoché suoi coetanei erano – nel 1977 e tutte edite nella stessa collana mondadoriana dello «Specchio» che pubblicava lui – Marzo e le sue idi di Bartolo Cattafi, Transito con catene di Maria Luisa Spaziani e Sinopie del ticinese Giorgio Orelli.
L’occasione era fornita da Il male dei creditori, un libro che già definivo a quel tempo, senza incertezze, «notevolissimo»: un libro «totalmente contemporaneo, a suo modo esemplare come pochi altri di un’idea stessa di poesia italiana ancora praticabile». La poesia era già allora, come correntemente si sosteneva, in crisi, ma Giudici dimostrava di attraversare quella crisi, rifacendosi all’esempio primonovecentesco – richiamato peraltro da uno dei suoi primi interpreti, Franco Fortini – di Gozzano e dei crepuscolari, per farne subito, però, non reperti archeologi in chiave culturalistica, ma elementi di confronto, tappe di un necessario cammino intuito comune: umanamente comune.
Sta di fatto che con il suo quarto libro Giudici già mi appariva rivendicare a proprio merito la saldatura perfetta tra i modi dell’antieroico intimismo di sapore crepuscolare e quelli di una socialità allo scoperto, assestando così, ex novo, con originalità e prima ancora con assoluta necessità, i dissestati equilibri della sua evoluzione lirica. Con Il male dei creditori il poeta giungeva alla riconciliazione (anche stilistica) con la realtà che avvertiva tanto oppressiva e repressiva solo in rari e miracolosi momenti, mentre per il resto era ed espressivamente si dimostrava in rapporto di disperata resistenza.
Riappropriandosi di un timbro montaliano per suo conto storiograficamente proveniente dalle zone di un crepuscolarismo superato, Giudici poteva già difendersi, interrogando senza infingimenti i fluttuanti decori del nostro vivere quotidiano:
Quale mai colpa è la mancanza di gloria nell’insetto?
E perché tenere a vile il sorriso dell’astante
Che appena scantonando si salva con la sua roba? (Animale antico).
E ancora, in riferimento a modelli familiari, genitoriali, crepuscolarmente riconducibili ad ambiti psicologicamente circoscritti e protettivi:
Doctor Subtilis... Anche lui scriveva il nulla
Anche lui rinviava tutta la vita a domani.
Con quella prestidigitazione di segni
Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile.
Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi
Verso il finire dei margini a farsi incerti
La forbita sintassi a guastarsi.
Fino al delirio d’inchiostro e a indirizzi sbagliati. (La sua scrittura)
Marco Marchi
Casa estrema
Decrepita
Al primo scorgerla – eccola
Un lindore di muri adesso un lusso
Di legni e il sole
Quasi non oso guastarla in parole:
Lei che ho voluta e avuta al maggior costo
Per lei spogliato di tutto
Non decrepito io ma certo all’ultima rampa
Del discendere altro non ne aspetto
Che un lieve ricominciare:
Ti ho fatta bella – gli dico
E tu fammi più vero
Ogni cuore da sè tende al suo petto
Ritornante Thule del pensiero
Nuovi nel nuovo dove ricambiamo
Bisbigli di saluti
Poi che l’esser stranieri
Rende più riconosciuti
Aspettiamo una sobria confidenza
Dei vecchi essendo il privilegio il non durare
Che al passato dà indulgenza
Mai ebbi un abitare
Così librato senza un prima e un poi
Tra il verde in su del vento e il chiaro mare
Abbandonati tutti i vivi morti –
O già futuro mite trafficare
Forme di questa casa
Vuoto di questi corpi
(da Quanto spera di campare Giovanni, Garzanti 1993)
Giovanni Giudici
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