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Zanzotto, Fellini e il ‘Casanova’. ‘Cantilena londinese’

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Federico Fellini

Firenze, 24 aprile 2013 – Nella Cantilena londinese il canto dialettale riprende nei modi blandamente sussurrati della filastrocca e del petèl, e ancora all’insegna della «gran testa», questa volta su tronco umano, intravista in una costante iconografica dell’arte felliniana: un’espressionista donna cannone («un femenon fenomeno da careton», che la «trascrizione in italiano» inevitabilmente sbiadisce in «un donnone fenomeno da circo») con insospettabili aspirazioni regressive. Costante di Zanzotto è invece il ricorso fiducioso alla lingua del «pappo» e del «dindi», mai finora così spassionato, tuttavia, e assecondato nel suo libero corso. A fornire l’avvio alla Cantilena pensa – come si precisa in nota – «un’antica e diffusissima contina un po’ modificata», il cui bagaglio di «numerosi nonsensi intraducibili» non può essere, evidentemente, che bene accolto. Vezzeggiativi e diminutivi costellano il testo, lo modellano. Come in un analogo divertissement popolaresco in milanese a suo tempo riproposto da Milly e Fiorenzo Carpi, ogni particolare è di graziosa piccolezza, e tutto si dimostra appropriato, perfettamente in carattere, in questo gioco a rimpiattino con le patetiche allusioni sessuali che la baldracca tramite il dialetto incipria e illeggiadrisce.

Nella ricerca di una incontaminata condizione d’innocenza in cui riconoscersi, si riaffaccia anche la contrapposizione elementare fuoco-ghiaccio: «Pin penin / valentin / o mio ben, / te serco inte’l fogo inte’l giasso / te serco e no ghe riesso / te serco e no ghe la fasso» («Piè-piedino / valentino / o mio bene, / ti cerco nel fuoco nel ghiaccio / ti cerco e non ci riesco»); e ancora, citando adesso dalla strofa conclusiva: «te serco inte’l masso / te serco fora dal masso / te serco e serco e indrio sbrisso» («ti cerco dentro il masso / ti cerco fuori del masso / ti cerco ti cerco e scivolo indietro»). È questo crudele inseguimento a vuoto, rivissuto in prima persona e sillabato dalla memoria della «gran testa», che conferisce a tutto il componimento un tono naïf di trasognata mestizia, votandolo nel contempo, com’è destino di ogni filò, alla ripetizione all’infinito, alla circolarità di struttura più ineccepibile e convincente. Il ritmo è, d’altra parte, quello protettivo, senza grossi scompensi o battute d’arresto, di una musicalità conciliante e premurosa; la semantica, quella che controlla i sussulti. Eppure, inaspettatamente se si vuole, quel ripetuto e martellante «te serco» («ti cerco») non si amplifica dentro di noi, quantunque o proprio perché così rilassati? La Cantilena londinese, diciamo così,invita con tenerezza a sogni disturbati.

La trilogia dialettale di Zanzotto culmina in un capolavoro, destinato a restare tra le prove più alte della storia della poesia italiana del Novecento. Un numero romano certifica l’ingresso ad un’autonoma seconda sezione del libro, con connotazioni sue proprie, nonostante le ragioni contingenti che l’accostano alle precedenti creazioni e la rendono profondamente afferente ad un nucleo ispirativo omogeneo. In questa sede, data soddisfazione agli obblighi di un lavoro d’équipe, il film è per così dire lasciato alle spalle, distanziato come esperienza da sottoporre semmai al bilancio e alla paziente distillazione dei sentimenti. La creatività coglie invece occasione per riattivarsi: riapre una circostanza teoricamente archiviabile, vi ritorna sopra con novella acribia.

Fuori programma, a suo modo, nasce dunque Filò. Ce lo dice innanzitutto la mutata materia linguistica, che non è più un ricreato veneziano arcaico non alieno da artificiose licenze di conio e di stravolgimento, ma il dimesso dialetto da sopravvissuti che è dato ancora assaporare a Pieve di Soligo. I rischi di affidarsi alla lingua che costituisce il primario, più naturale ed istintivo mezzo di comunicazione sono corsi al cento per cento, tanto da smentire dichiarazioni di poetica non troppo distanti del tipo: «Io sono veramente cresciuto nel dialetto, ma, per certi aspetti, rimuovendolo, e mettendo invece davanti agli occhi, riservando alla zona illuminata, alla coscienza, la lingua».

A differenza che nei due componimenti felliniani, non soccorre in Filò neppure il ricorso ad una letterarietà illustre di riscatto, che a livello specificamente linguistico contraddica le sicurezze psicologiche garantite dall’ambiente e immancabilmente esorcizzate, invece, dall’operazione poetica. La «cultura», sempre presente in Zanzotto, dovrà percorrere altre strade, tentando una sorta di meditato ricongiungimento ad un’infanzia da cui non si ha niente da temere. Uno status sospettato dalla più avvertita poesia italiana del Novecento riacquista – come l’autore ebbe modo di dichiarare in un’intervista a Ferdinando Camon – prerogative di «tensione all’essere e allo sviluppo, all’espressione e quindi alla responsabilità».

Sta di fatto che il disegno si rivela senz’altro più ambizioso. Alle stringenti progressioni del Recitativo e ai ripiegamenti tautologici della Cantilena si contrappone qui l’ampio respiro di un poema narrativamente giocato su tempi lunghi, i cui modelli di riferimento più propri (la «cultura», appunto) saranno da intravedere nelle calcolate architetture dei Sepolcri foscoliani o nel fermo canto civile dell’ultimo Leopardi, non a caso citato, popolarizzato in «quel de la Ginestra» e addirittura riscritto in versione up to date. Leopardiano è soprattutto l’equilibrio, costantemente mantenuto, fra accento energico e struggente senso di pietà, da ferma ed accorata profezia di un uomo del Novecento che parla a uomini del Novecento. Si esordisce appunto, modernamente, con un attacco al cinema, valutato mass-media nefando, detestabile fino alle riluttanze di una chiamata in causa puramente discorsiva.

Zanzotto fa della sana ecologia dell’anima: difende i nostri sogni – «e ’1 parlar dei insònii» («e il parlare dei sogni»), visto che è poeta – dalle minacce montanti e scarsamente biodegradabili del mondo della celluloide, e con incisività espressiva ne mette in luce gli spietati meccanismi corruttori. «Ma qualche òlta ’1 cine» («Ma qualche volta il cinema») non si comporta così, riuscendo a fondere estroversioni e opportunità non rigidamente pedagogiche in una magica funzionalità interagente che «al ne fa s’ciopar sbociar fora come i but a la vèrta / al ne met par trói stranbi, sote zhiéi del tut nòvi, / a calcossa che é là che ’1 ne spèta, inte ’n goder / na siorìa, ’n teren, un vent che no à confin, / e ’1 cine – squasi – ’1 par lu la poesia» («ci immette in sentieri strani, sotto cieli del tutto nuovi, / in qualcosa che è là che ci aspetta, in una gioia / una ricchezza, un terreno, un vento che non ha confini, / e il cinema – quasi – sembra esser lui la poesia»). È spettato ad un’avversativa, come avviene nei Sepolcri, il compito di segnare il passaggio a un costruttivo ribaltamento del discorso: fino all’identificazione del cinema con la poesia.

Ma è all’interno della lassa che immediatamente segue che si annotano sensazioni e riflessioni del poeta di fronte al Casanova, realizzazione esemplare di un progetto di «fola» rivelatrice, e questo avviene al cospetto della «gran testa» di cui dicevamo: «e co ò vist la gran testa / testa de tut quel che noalti són, / tirada su desmàt e desbòn / tirada su e po’ dopo cascar dó / tra sacrabòlti sbìgola e fifìo» (« e quando ho visto la grande testa / testa di tutto quello che noi siamo, / sollevata per scherzo e sul serio / tirata su e dopo cascar giù / tra implicazioni, spavento, panico»).

Arriviamo così all’ultima strofa di Filò, che ai fini di quanto si è cercato di sostenere riserva veramente, quasi a suggello, una sorpresa. Zanzotto ha appena finito di formulare il suo saluto al dialetto. Il paesaggio che ha avuto sott’occhio non è affatto cambiato, permanendo tragico, disastrato al pari di quelli in precedenza esplorati del Friuli, del Vajont e del neocapitalismo contemporaneo, riconfermando per giusta l’estensione in ambito di parola di un responsabile operato ecologico. Dopo che le corde della commozione umanitaria sono state portate al diapason e l’invito a farsi coraggio caldamente esternato, dopo che, sulla scorta di un vecchio verso («uccelli che parlate il mio dialetto», presente in Dietro il paesaggio), sparuti uccelli sono rimasti unici depositari di un’estrema persistenza nel massacro – Filò si avvia alla sua conclusione.

Il congedo è ormai prossimo, e ora che giunge ecco che esso è tenuto all’insegna di un tale auspicio: «Ma da ’ste pòche brónzhe de qua dò, / dai fià dei filò de qua dò, / si i fii, si i fii / del insoniarse e rajonar tra lori se filarà, / la su, là par atorno del ventar de le stele / se inpinzharà i nostri mili parlar e pensar nòvi / inte ’n parlar che sarà un par tuti, / fondo come un basar, / vèrt sul ciaro, sul scur, / davanti la manèra inpiantada inte ’1 scur / col so taj ciaro, ’pena guà da senpre» («Ma dalle poche braci di quaggiù, / dai fiati dei filò di quaggiù, / sei fili / se i fili / del sognare e ragionare fra loro si fileranno, / lassù, nei dintorni del tirar vento di stelle / si accenderanno i nostri mille parlari e pensieri nuovi / in un parlare che sarà uno per tutti, / fondo come un baciare, / aperto sulla luce, sul buio, / davanti la mannaia piantata nel buio / col suo taglio chiaro, appena affilato da sempre»). Che equivale a dire – tra ravvicinati, giustapposti e quasi già ibridati insoniarse e rajonar – la riproposta in sintesi della scommessa poetica di Zanzotto: la sua fiducia nell’immaginazione.

Marco Marchi

Cantilena londinese

Pin Penin
valentin
pena bianca
mi quaranta
mi un mi dòi mi trèi mi quatro
mi sinque mi sie mi sète mi òto
buròto
stradèta
comodèa–

Pin Penin
fureghin
perle e filo par inpirar
e pètena par petenar
e po’ codini e nastrini e cordèa–

le xe le comedie e i zoghessi de chèa
che jeri la jera putèa

Pin Pidin
cossa gastu visto?
‘Sta piavoleta nua
‘sto corpesin ‘ste rosette
‘sta viola che te consola
‘sta pele lissa come sèa
sti pissigheti de rissi
‘sti oceti che te varda fissi
e che sa dir “te vòi ben”
‘ste suchete ‘sta sfeseta–

le xe belesse da portar a nosse
a nosse composte de chéa
che jeri la jera putéa

Pin Penin
valentin
o mio ben,
te serco inte’l fogo inte’l giasso
te serco e no ghe riesso
te serco e no ghe la fasso,
pan e dedin
polenta e nasin–
chi me fa dormir
chi me fa morir
tuta pa’l me amor
chi me fa tornar
coi baseti che ciùcia
coi brasseti che struca
co la camiseta più bèa–

le xe le voje i caprissi de chèa
che jeri la jera putèa

Pin pidin
valentin
pan e vin
o mio ben,
un giosso, solo un giosso,
te serco inte’l masso
te serco fora dal masso
te serco te serco e indrio sbrisso,
chi xe che me porta’l mio ben
chi me descanta
chi me desgàtia
chi me despìra
pan e pidin
polenta e nasin
polenta e late
da le tetine mate
da le tetine beate–

i xe zoghessi de la piavoleta
le xe le nosse i caprissi de chèa
de chèa
che jeri la jera putèa.

Andrea Zanzotto 

(da Filò, 1976, Edizioni del Ruzante, ora Einaudi)

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