Adonis, poeta arabo tra Virgilio e Leopardi
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Firenze, 27 giugno 2013 – Pluricandidato al Nobel, Adonis – nome d’arte di ‘Ali Ahmad Sa’id Isbir, siriano d’origine, poi cittadino libanese, da molti anni francese, classe 1930 – è un poeta arabo di assoluto rilievo nel quadro della letteratura mondiale di oggi. La sua opera, vasta, qualificata e molto tradotta – dai Canti di Mihyar il damasceno a Il teatro e gli specchi, dal Libro delle metamorfosi e Celebrazione delle cose oscure e chiare a Un desiderio che avanza sulle mappe della materia e Memoria del vento –, ha presto previsto la rottura degli schemi convenzionali della poesia arabo-islamica, facendosi portavoce, nell’innovare e nell’aprirsi a forme e valori universali, di una rinascita di quella tradizione e, insieme, della rigorosa difesa della libertà di pensiero che nel fatto artistico culmina e si celebra.
Distante da ogni rigido confessionalismo come da ogni ossequio al potere, parimenti critico nei confronti del cinismo dell’Occidente, Adonis ha sostenuto e poeticamente interpretato con i suoi versi l’importanza della condivisione e della interrelazione fra le varie culture, valorizzando il senso di «opera comune» rivendicabile alla poesia, tra ascolto del presente, memoria del passato e speranza.
Si segnalano così, assieme alla sua produzione lirica, le sue pubblicazioni in prosa e di tipo saggistico: Introduzione alla poesia araba, Il fisso e il mutevole, La preghiera e la spada, La musica della balena azzurra e Oceano nero, senza dimenticare la bella riflessione-testimonianza sulla morte elaborata durante la guerra civile a Beirut dal titolo Il libro dell’assedio.
Ha dichiarato Adonis nel corso di un suo viaggio in Italia, siglando l’apertura a un collettivo e davvero globale «noi» dell’arte, rispettoso delle pluralità e delle differenze: «Sì, sono d’accordo con Publio Terenzio Afro, Homo sum, humani nihil a me alienum puto; sono un uomo, non ritengo a me estraneo nulla di ciò che è umano». «A Napoli – ha detto ancora – la tomba di Virgilio è accanto a quella di Leopardi, segno di una continuità che è anch’essa una forma di dialogo attraverso lo spazio e il tempo. In modo analogo, si può essere di religioni diverse, ma quando vediamo la statua del Cristo velato di Giuseppe Sammartino nella Cappella Sansevero contempliamo un’espressione dell’arte umana. L’arte aiuta a portare tutto su un piano di profonda umanità».
Marco Marchi
Pace
Pace
ai volti che, soli, vanno nella solitudine del deserto,
all’oriente vestito d’erba e fuoco.
Pace alla terra lavata dal mare
al tuo amore, pace...
la tua nudità folgorante le sue piogge mi ha dato
il tuono consacrato nel petto
è maturato il tempo
avanza il mio sangue
prendimi e sparisci splendore d’oriente
perdimi hai cosce d’eco e lampo
prendimi del mio corpo copriti
favore il mio fuoco
astro la mia ferita è guida
m’infiammo...
stella divampo,
la disegno
dalla mia patria fuggendo nella mia patria,
divampo stella,
la disegna nella traccia dei suoi giorni perduti
oh cenere della parola
la mia storia ha un figlio nella tua notte?
Canto
T’invoco, o fine della notte,
sul mio letto prolungati o inebriati,
sul mio letto sii maga,
a dire t’esorto che cosa dice l’amore all’amante
alla fine delle stagioni.
Dialogo
Un sipario fra me e te, non mi vedrai,
schiettezza e rivelazione da dove ti arriveranno?
La morte è calata nel tuo cuore,
allora fa’ che la morte ti illumini.
Come violare potresti la consuetudine?
Deliri, vaneggi
le mie regole non han presa su te.
– Sono le tue fondamenta
il mio sole ti ha maturato
anello, ti ho infilato a sigillo del tempo.
La rosa dell’alchimia
Nel paradiso della cenere dovrei viaggiare
tra i suoi alberi nascosti,
nella cenere vi sono fiabe,
diamanti e un vello d’oro.
Nella fame dovrei viaggiare, nelle rose,
verso la mietitura dovrei viaggiare,
riposare sotto l’arco delle labbra orfane,
nelle labbra orfane, nella loro ombra ferita
è la rosa dell’alchimia.
(da Nella pietra e nel vento, Mesogea, 1999, a cura di Francesca Corrao, versione poetica di Giacomo Trinci)
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