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Tozzi e un fiore del male

VEDI I VIDEO "Le Guignon" di Charles Baudelaire ,  Tozzi, la scrittura crudele

Federigo Tozzi

Firenze, 16 luglio 2012 – La mappa delle traduzioni dal francese di Federigo Tozzi prevede nomi e testi significativi. Se nell’Archivio Tozzi si conservano ancora gli originali della Principessa Maleine di Maeterlinck e di Una notte al Lussemburgo di Remy de Gourmont, se una lettera di Novale testimonia perlomeno di un progetto di traduzione del romanzo La Cathédrale di Huysmans, anche il settore poetico si sapeva dover annoverare prodotti che non fossero solo versioni di liriche di Francis Jammes.

Tra questi materiali emerge un importante, testimoniabile rapporto fra Tozzi e l’opera di Charles Baudelaire. Si tratta dell’undicesimo componimento delle Fleurs du Mal, il sonetto Le Guignon, tradotto da Tozzi con sostanziale fedeltà alla lettera dell’originale.

La carta dell’autografo è conservata in un inserto con datazione di mano di Glauco Tozzi – il figlio dello scrittore, editore delle sue opere – «Roma, luglio 1917». Ciò rende plausibile il collegamento con un esemplare delle Fleurs du Mal posseduto da Tozzi e da lui datato nel frontespizio «Roma, luglio del 1917». Ma anche l’indicazione di Glauco Tozzi non esclude una frequentazione delle Fleurs da parte dell’autore ben più antica, arretrabile almeno, stando alle attestazioni dei Registri dei prestiti della Biblioteca Comunale di Siena, al 4-8 maggio 1905: Tozzi, allora, era appena ventiduenne.

Certo è che la scelta di una poesia da tradurre come il sonetto Le Guignon di Baudelaire appare per Tozzi pertinente ed ad ogni altezza del suo percorso artistico calamitante: un testo da affinità elettive, si direbbe, in cui lo scrittore senese, fino dal primo verso, è irresistibilmente richiamato ad una propria poetica, ai fondamenti stessi del suo bisogno espressivo: posto come di fronte ad uno specchio.

«Pour soulever un poids si lourd»: la condanna cui il ribellistico figlio di Eolo è sottoposto è la medesima che Tozzi sta continuativamente scontando da sempre. La sfortuna (le guignon) e l’inferno derivabili da un testo di Baudelaire si attualizzano. Subito si riattiva la dicotomia manichea efficiente in Tozzi tra anima e opaco involucro terrestre, testimoniata dagli antichi documenti epistolari indirizzati alla fidanzata (si vedano gli ostacoli corporei alla pienezza dell’amore e alla «vera vita delle sensazioni» nella lettera del 3 gennaio 1908) e, splendidamente, da tutta un’opera.

Pesantezza e leggerezza. Anche l’impegno lirico certifica l’«enorme martirio» subìto. Servirà affidarsi alla scrittura? L’Arte tenta di reagire a un disagio, di rispondere, smentendo l’assurda arbitrarietà di ciò che il Tempo è disposto a concedere al nuovo Sisifo, mitologico «uomo dei dolori» pronto a reimpostare l’imperscrutabilità del proprio esempio di disubbidiente punito secondo l’elementare dialettica luce/tenebra, qui ravvisabile nel prosieguo dei versi, dislocata nella prima terzina del sonetto.

Procedere nel buio, con gli occhi chiusi, in cerca della «bocca che possa parlarci dolcemente» (La gioia, in Barche capovolte), sperando di sanare la scollatura nominalistica che sussiste tra le parole e le cose, di riconquistare l’anima... Les Fleurs du Mal e le Lamentazioni finiscono in Tozzi per confondersi, al pari della scienza di William James e dell’ardore mistico di Santa Caterina.

L’Arte è lunga, il Tempo breve (dall’aforisma di Ippocrate «Vita brevis, ars longa» ai sonetti di Alfieri e Foscolo: «Lunga è l’arte sublime, il viver breve», CLXXXVII, «Breve è la vita e lunga l’arte», XII), il cammino di risalita dall’abisso impervio e faticoso, gli strumenti cui ricorrere per tentare l’impresa inadeguati: fatalmente imperfetti.

All’insegna di una sorta di antiparnassianesimo biologico, lontano da marmoree compiutezze e vantabili impassibilità e fiducioso invece nelle prospettive dal basso, Tozzi e Baudelaire si ritrovano assieme, partecipi di una medesima totalizzante sfida linguistica della nostalgia e della consapevolezza, se il poeta delle Fleurs, come ha scritto con pertinenza Luigi de Nardis, «crede in un mondo di forme perfette e esistenti da sempre, irraggiungibili come i gioielli sepolti nel cimitero solingo della sua anima, a cui tenta di avvicinarsi per scandagli, talvolta anche usando rabbiosamente la zappa». Di più: «La sua ossessione compositiva nasce proprio da questa paziente rabbia di ricerca nel profondo, verso le architetture di una vita anteriore, verso gli archetipi della bellezza».

Sono definizioni travasabili. Non a caso, pure all’interno di un singolo testo tradotto, l’universo precipitato tozziano, perennemente  anelante a redenzioni purificatrici e ricongiungimenti a un rigoglioso podere di partenza, torna suo malgrado a profilarsi nei termini di un unico, protratto day after della cacciata: granitico allestimento di inganni che «trasuda il delitto» (Macchia), criptico scenario di mere possibilità sigillate, di «misteriosi atti nostri» solitari e sepolti, inesplicabili e solo rappresentabili nelle loro contraddittorie emergenze di superficie.

«Era una mattina d’estate – si legge in una prosa di Bestie –, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza». Nessun «tamburo velato» al seguito di «marce funebri», come nel testo delle Fleurs. Ma anche la natura di Le Guignon promette e si ritrae, indica e si nasconde, è immobile e ferisce.

Il che equivale a dire Tozzi assieme a Baudelaire e assieme a Leopardi, i grandi inauguratori del moderno. Ciò nonostante il desiderio baudelairianamente superbo dell’Opera, analogamente a quanto accade tra i confini del piccolo cimitero di campagna che ritroviamo nelle pagine tozziane di Adele (luogo dimenticato da tutti, ma non dallo scrittore che ne registra puntualmente il fascino),continua a inviare segnali, a svolgere le sue ambiguità mortuarie di attrazione e di potenziale rivalsa: il suo profumato secret, il suo luccichio prezioso e inaccessibile: «È un cimitero che non ode se non i canti degli uccelli», «tutto aperto all’infinito».

Marco Marchi

Per sollevare un peso così greve

Per sollevare un peso così greve,
Sisifo, ci vorrebbe il tuo coraggio!
Benché abbia cuore per mettermi all’opera,
È l’Arte lunga e in vece il Tempo è breve.

Lontano dalle sepolture celebri,
E verso un cimitero ch’è isolato,
Il cuore come un tamburo velato,
Battendo va dietro le marce funebri.

Molti gioielli dormono sepolti
Nelle tenebre folte e negli oblii,
Lontano dai picconi e dalle sonde.

E molti fiori a dare son restii
Profumi dolci come sogni avvolti
Da grandi solitudini profonde.

Le Guignon

Pour soulever un poids si lourd,
Sisyphe, il faudrait ton courage!
Bien qu'on ait du coeur à l'ouvrage,
L'Art est long et le Temps est court.

Loin des sépultures célèbres,
Vers un cimetière isolé,
Mon coeur, comme un tambour voilé,
Va battant des marches funèbres.

Maint joyau dort enseveli
Dans les ténèbres et l'oubli,
Bien loin des pioches et des sondes;

Mainte fleur épanche à regret
Son parfum doux comme un secret
Dans les solitudes profondes.

Charles Baudelaire

(da Les Fleurs du Mal,1857)

Vedi anche il post 'Antiche torri della mia città'. Tozzi poeta

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